venerdì, Aprile 19, 2024

Buon Giorno di Ozu Yasujiro: la recensione

A tre anni dalla morte, siamo nel 1959, il “tocco di Ozu” è più smagliante che mai.
Di Lubitsch e Chaplin si avverte costante la presenza di buoni numi tutelari, con loro “il più giapponese dei registi giapponesi” forma un trittico indissolubile, pietra miliare saldamente posta sulla lunga strada del cinema.
Seguiranno Storia di erbe fluttuanti, Tardo autunno, L’autunno della famiglia Kohayagawa e, ultimo, Il gusto del sakè, ma non tornerà più la spensieratezza di Buongiorno, “ i bambini di Ozu” cresceranno e si omologheranno, il loro silenzio diventerà quello dei grandi.
Tema dominante del film è il silenzio, ma quello di bambini in sciopero di parole.
Sui bambini lo sguardo di Ozu si è sempre posato divertito, attento, in alcuni casi commosso, sempre partecipe e straordinariamente capace di immedesimarsi, riprodurne il linguaggio e la gestualità senza artifici nè forzature, stando dalla loro parte a misurare la distanza che li separa dagli adulti. Membri a pieno titolo della famiglia giapponese del dopoguerra, i bambini, come le donne, sono entrati nello spazio scenico che la macchina ha continuato a riprendere “ad altezza di tatami“, come ai tempi del muto, forse allo scopo di contenere il campo visivo nel rassicurante controllo del proprio sguardo o forse, più credibilmente, ad indicare che nulla c’è oltre la siepe.

Area circoscritta, stretta fra pareti, pannelli di carta di riso, steccati di angusti cortiletti di periferia, con il loro ingresso Ozu fornisce quegli spazi di coordinate nuove. Anche i veloci passaggi su esterni popolati da treni in corsa, tralicci e ciminiere fumanti, fili aerei con panni stesi ad asciugare e facciate grigie di grattacieli gremiti di finestre come occhi ciechi, si animano di corse e ruzzoloni, birichinate e giochi, ma anche di cocenti esclusioni dal gruppo e dolorose delusioni. Nulla c’è che Ozu conceda all’oleografia, anche i bambini possono essere spietati e, a modo loro, ferire.
Come in Buongiorno.

Si comincia dal titolo. Quale parola più universale, nota, abusata, fonema puro ormai quasi privo di forza semantica? Banalizziamo il linguaggio, ci serviamo di formule che riempiono il vuoto della comunicazione, dice Ozu, non costruiamo più la relazione con l’altro. “ Gli esseri umani amano le chiacchiere inutili, ma quando si tratta di dire qualcosa di importante, nei momenti critici, ammutoliscono ”. Eppure, senza queste vuote formule, “ buongiorno, buonasera, che tempo che fa ”, non sarebbe troppo arida la vita? “ Certo ” fa dire a due personaggi chiave, i giovani innamorati che occupano la fascia intermedia fra grandi e piccoli, “ ma questi bambini non possono ancora comprendere che è l’inutile a rendere il mondo amabile ”.

Entrare in sciopero di linguaggio verbale negando anche le parole più insignificanti è allora la nuova frontiera della lotta per la propria affermazione, per ottenere qualcosa di non effimero, per creare scompiglio all’interno dell’ordine convenzionale, segnando nuovi rapporti di forza. Non dire più nemmeno ” buongiorno ” è ridare alle parole la loro centralità, quella capacità di comunicare per cui l’uomo le ha inventate. Questo capiscono e vogliono i bambini nella loro purezza pre-razionale, pre-logica, fuori da convenzioni e rituali.

Ma per cosa lottano questi monelli, qual è la strategica posta in gioco nel braccio di ferro fra loro e i genitori? E’ la conquista di un televisore per seguire le adorate partite di sumo wrestling. Minoru e Isamu, mascotte di irrefrenabile simpatia della “famiglia di Ozu ”, sono molto inclini a saltare le lezioni d’inglese per riunirsi a casa dell’amico “teledotato” a tifare per i loro eroi. Naturalmente questo non va, bisognerà ricorrere a mediazioni, ma prima ci sarà lo scontro, la lotta senza esclusione di colpi, e lo sciopero del linguaggio è spiazzante quanto basta per disorientare il nemico.

Siamo nel Giappone del dopoguerra, molte cose sono cambiate, pesanti sconfitte e umiliazioni cocenti hanno segnato il tramonto definitivo dell’epica del samurai, la nuda mediocrità della vita quotidiana ha preso il sopravvento. Notte e nebbia sono scese sull’Impero del Sol Levante da quando il Tenno non è più figlio del Sole e l’americanizzazione forzata sta facendo vedere i suoi frutti. Inedite connessioni familiari e sociali cominciano a portare in superficie istanze nuove, a breve si arriverà a Wakamatsu Koji e Oshima Nagisa, ai racconti crudeli della giovinezza e agli infervorati militanti del movimento studentesco (Zengakuren), brodo di coltura dei militanti di United Red Army intenti a preparare la rivoluzione globale e quant’altro.

Per ora Ozu si limita a registrare, con sorniona e lungimirante preveggenza, gli scricchiolìi minacciosi sotto la superficie.
I suoi bambini cresceranno e le donne non saranno più le dolorose O-Haru in vendita nelle strade di Gion, il quartiere a luci rosse di Kyoto. Ora il problema sono le quote associative al Club che sembrano sparite e scatenano illazioni e ammiccamenti sulla presidentessa che si è comprata la lavatrice nuova, è il televisore che scatena conflitti generazionali o il vicino depresso che, finalmente, si è deciso a lavorare e fa il rappresentante di elettrodomestici.
Merito dello sciopero alla fine il televisore arriva con il suo bravo scatolone a occupare, massiccio e ingombrante, il piccolo corridoio dove si passa, leggeri e silenziosi, a piedi nudi.

Ma un posto lo troveremo ” sembra dica con prepotenza, “ora milioni di giapponesi si preparano a diventare idioti ”.

Tavolozza piena e smagliante di rossi, blu e gialli, tutte le sfumature dell’ocra e del mattone, Ozu gioca con il colore con la stessa maestria con cui le ombre del bianco e nero e l’infinita gamma dei grigi avevano reso plastica la scena dei suoi film precedenti. La colonna sonora di Mayuzumi Toshiro commenta ogni scena con divertita ironia, a partire dai titoli di testa quando, ad un preludio trionfale, fa seguito una marcetta allegra che accompagna i monelli che tornano da scuola e giocano ai petomani con umorismo scatologico tutto infantile. Non mancano mandolinate stile Napoli e accordi presi da qualche melodramma europeo convertito sulle tastiere giapponesi in produzioni innegabilmente autoctone.
E mentre un bel pieno orchestrale stacca l’ultima scena con il ragazzino in mutande e la mamma che gli cuce i bottoni sui pantaloni, un bianco e nitido ideogramma si staglia sulla tela di sacco del fondo a mettere la parola FINE.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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