giovedì, Marzo 28, 2024

Il Clan di Pablo Trapero: la recensione

Argentina, primi anni ’80: Videla è stato deposto e il Proceso de Reorganización Nacional, come eufemisticamente il regime si autodefinisce, entra in una fase di rovesci improvvisi e spartizione del potere che porterà presto ad un ritorno della democrazia. In queste anse burrascose della storia del paese trova terreno fertile uno dei più famigerati e sconvolgenti casi di cronaca argentina: L’ex agente segreto e fedelissimo della giunta militare Arquimedes Puccio, si mette in proprio e apre una ditta a conduzione famigliare di sequestri di persona. Nel giro di un paio d’anni rapisce e fredda tre rampolli dell’imprenditoria di Buenos Aires, il tutto ospitando gli ostaggi nel bagno di casa e coinvolgendo direttamente moglie e cinque figli nelle varie fasi delle operazioni. La fa franca, finché gli appigli coi poteri forti cominciano a scricchiolare.El Clan privilegia lo sguardo sulla vicenda del figlio Alejandro, stella della nazionale di rugby e suo malgrado braccio destro del padre, del quale subisce più di tutti i ricatti psicologici intrisi di una distorta morale sull’unità familiare.

Al culmine di una carriera che lo ha visto affondare a piene mani nella commistione tra trame noir e severa critica sociale del proprio paese, Pablo Trapero affronta un pezzo ancora rovente di cronaca nazionale, stravincendo al botteghino in patria con una ricostruzione dei fatti adrenalinica, fieramente ammiccante ai gangster movie statunitensi (e non immune a soluzioni di puro effetto ma piuttosto trite: si veda a riguardo il montaggio alternato tra scena di sesso ed efferato sequestro di persona). L’elemento di novità risiede nella peculiarità della vicenda narrata: l’atmosfera di paradossale quotidianità nella violenza è modulata abilmente dal regista di San Justo, che come d’abitudine mantiene una presa saldissima sul film occupandosi sia della produzione esecutiva che del montaggio.

Elemento cruciale nell’oliare l’amalgama tra vita familiare e attività criminale è la colonna sonora, che snocciola sbarazzini classici anglosassoni anni ’60 (ne è un esempio Sunny Afternoon dei Kinks, vero e proprio ritornello nelle scene più intense del film), utilizzandoli in chiave ironica a commento delle scene di maggiore violenza. Le immagini di repertorio lungo l’arco narrativo legano invece a doppio filo la storia dei Puccio con la Storia del paese, suggerendo che le scorie psicologiche della dittatura sul tessuto sociale abbiano reso possibile una così ordinaria e imperturbabile professione del male. Resta ben impresso nella mente il personaggio di un capofamiglia mefistofelico nella sua calma e nella distorsione dei valori cristiani, che tiene soggiogata l’intera famiglia sotto la cupola della propri ricatti psicologici e a cui è stato assegnato lo sguardo azzurrissimo e raggelante (una scelta di campo registica, quasi un effetto speciale, se si pensa agli occhi piccoli e scuri del vero Puccio) di Guillermo Francella, popolarissimo comico televisivo, affermatosi negli ultimi anni come uno dei più maturi e credibili interpreti drammatici in Sudamerica.

Ne risulta in definitiva un film estremamente solido, forse avaro di raffinatezze e originalità, ma che sa valorizzare i punti di interesse della storia che racconta, condendoli con ritmo e topoi di genere sufficienti da potersi conquistare una consistente fetta di pubblico, anche a livello internazionale.

Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio, prodotto dell'annata '85, scrive di cinema sul web dai tempi dei modem 56k. Nella vita si è messo in testa di fare cose che gli piacciano, quindi si è laureato in Linguaggi dei Media, specializzato in Cinema e crede ancora di poterci tirare fuori un lavoro. Vive a Milano, si occupa di nuovi media e, finchè lo fanno entrare, frequenta selezioni e giurie di festival cinematografici.

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