sabato, Aprile 20, 2024

Las acacias di Pablo Giorgelli: gli alberi che non muoiono mai

Presentato a Cannes 2011 nella Semaine de la Critique e vincitore del Premio ACID/CCAS, del Premio OFAJ della Giovane Critica e della Caméra d’or per la migliore opera prima, Las acacias di Pablo Giorgelli è un road movie che dà alla strada il sovrasenso iconografico necessario per cogliere, al di là dal sensibile, le corrispondenze misteriose dell’anima. Autostrada che da Asunción, in Paraguay, porta a Buenos Aires, in Argentina. 1500 chilometri che Ruben (Germán de Silva) attraversa col suo camion trasportando legna e, se capita, qualche passeggero che arrotondi il bilancio.

Cadono tronchi di acacie al rombo di motoseghe, in apertura. Il sonoro, stridente e brutale, contrasta con l’immagine leggera della caduta di chiome che si appoggiano a terra rimbalzando, mentre il sole filtra nella macchia fitta con riverberi policromi. Il lavoro dei taglialegna, l’andirivieni dei camion, la terra inerte, un nastro di vita sterile come un’autostrada. Pablo Giorgelli blocca la macchina dentro l’abitacolo del camion di Ruben, ne esce solo se indispensabile, e, dopo 1500 km, il mondo è cambiato. Compagne di viaggio di Ruben stavolta sono Jacinta (Hebe Duarte ) paraguayana di etnia guaranì e Anahì (Nayra Calle Mamani) la figlioletta di cinque mesi, che con il suo visetto pieno sotto il caschetto compatto di capelli neri ruba la scena a tutti, con risatine e occhioni sgranati da attrice consumata.
Jacinta si sta spostando da una cugina a Buenos Aires, alla fine del viaggio arriverà in un quartiere popolare accolta da una famiglia numerosa e festante.
Alle sue spalle molto non va, a chi lo chiede (Ruben, guardie di frontiera) risponde solo che la bambina non ha un padre. Dopo una telefonata alla madre piange silenziosamente, ma è tutto quello che si saprà di lei.

Di Ruben sappiamo ancora meno. Ha un figlio che non vede da otto anni e nel cruscotto c’è qualche foto di tempi felici che Jacinta scruta velocemente mentre lui è fuori. Nient’altro. Ma c’è una conoscenza fra esseri umani che va oltre il linguaggio, e Giorgelli la cattura con la stessa delicatezza che usa per le chiome di acacia buttate a terra dalla motosega. Film relativamente breve, scandito dalle soste in autogrill che interrompono la corsa, i rari movimenti di macchina per guardare oltre il finestrino la monotonia del nastro d’asfalto che scorre sono cesure di una metrica segnata dalla ripresa alternata dei visi di Ruben e Jacinta.
Il linguaggio silenzioso prende corpo in una gradazione sommessa, intima. Ne percepiamo le variazioni millimetriche, dal fastido iniziale di Ruben per il ritardo della donna e la presenza, inaspettata, della bambina, alla dolcezza timida del finale, quando è il momento di separarsi. Scorre, dall’inizio alla fine, l’intera teoria degli affetti, affidata unicamente alla dimensione visiva, purissima, nulla che trascenda o che s’imponga con intento didascalico. Ottantacinque minuti di cinema rarefatto, ogni inquadratura è il frammento di un’architettura in costruzione, un universo figurativo fatto di impercettibili modificazioni interiori che si traducono in gesto breve, sguardo rapido, leggera increspatura delle labbra in un sorriso. Viaggio silenzioso ma ricco di comunicazione, arriverà al capolinea lasciando in chi assiste all’eterna liturgia dell’incontro amoroso la serena dolcezza delle cose che possono accadere, on the road, in un incontro imprevedibile e vulnerabile.
La semplice e pragmatica presenza di Jacintha, positivamente aperta al futuro con la sua irresistibile bamboletta paraguaiana, fa breccia nella scorza ruvida di Ruben, nasce un capirsi profondo che non ha bisogno di nulla, solo di una promessa: “La prossima settimana andrò a Catamarca, ci sono paesaggi bellissimi, … stavo pensando…vieni con me?”

I paesaggi dell’Argentina, li avevamo visti passare dal finestrino.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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