martedì, Aprile 23, 2024

Fuocoammare di Gianfranco Rosi – Berlinale 66: Concorso

Lampedusa a cavallo del duemilaquindici. Gianfranco Rosi abbandona i vagabondaggi psicogeografici e concentrici nella periferia romana e si butta tra il cielo e il mare, facendo tappa sulla piccola isola siciliana. Davanti all’obiettivo passano i volti e i corpi dei «migranti», come li ha ribattezzati il politicamente corretto, ma anche quelli dei lampedusani – a cominciare da Samuele, un ragazzino che ama tirare di fionda malgrado un occhio pigro.

Rosi è ormai il maestro riconosciuto del documentario fondato sui personaggi. Zero spiegoni, niente voci off o raffiche di cifre: sono le persone a parlare, calate il più possibile in una quotidianità autentica. Con qualche fugace sguardo in macchina. Un genere di documentario, il suo, che fa scuola da anni, come dimostrano ad esempio i riusciti mediometraggi di Caterina Carone.

Un progetto come Fuocoammare, almeno sulla carta, correva due rischi: un’insufficiente distanza critica dagli eventi, visto che si parla di un’ecatombe in pieno corso; la tentazione di buttarla sul politico, fondamentalmente in caciara. Rosi riesce invece non solo a evitare l’«effetto Martone», nel senso del prodotto fatto per essere proiettato al Quirinale, ma anche a trovare una chiave di lettura efficace per raccontare Lampedusa e le 70 miglia di mare aperto che la separano dall’Africa.

Questa chiave di lettura è un racconto duplice: da un lato i salvataggi in mare e i primi passi dei sopravvissuti su suolo europeo, dall’altro la vita quotidiana dei lampedusani campionata seguendo Samuele e zia Maria, un’anziana che ogni giorno telefona alla radio locale chiedendo canzoni dantan – come per l’appunto Fuocoammare. I due mondi, quello di chi arriva e quello degli stanziali, non s’incrociano mai. Almeno sullo schermo. L’unica cerniera è rappresentata da un medico generico.

Onesto, commovente, puntuale, con squarci di natura mozzafiato, il documentario di Rosi è fatto di persone prima ancora che di personaggi. Ha il coraggio del primissimo piano e dell’excursus in apparenza fuori luogo, ma alla fine Fuocoammare sfoggia una solidità impressionante e un equilibrio perfetto tra dramma e leggerezza. A noi spettatori il compito di cogliere nessi tra la dimensione micro e quella macro, tra psicogeografia e geopolitica. Compito facile quando a fare da tramite è il prisma del buon cinema.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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