martedì, Marzo 19, 2024

La luna su Torino di Davide Ferrario: la recensione

Nel suo saggio Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Gianni Rodari riconcettualizza l’opinione comune secondo la quale il racconto sarebbe una forma di evasione. «Il racconto, al contrario, mi appare una fase più avanzata di dominio sul reale, un rapporto più libero con i materiali. È un momento di riflessione che va al di là del gioco. È una forma di razionalizzazione dell’esperienza: un avvio all’astrazione».

Partire da questo riferimento può aiutare ad addentrarci nell’idea fulcro del film di Ferrario, che trova proprio nei rimandi intertestuali la sua forma di espressione. Un film metacinematografico, si direbbe, ma nel senso più viscerale del concetto. Un film che racconta il cinema, non limitatamente alle sue peculiarità espressive, ma nel più nucleare senso dello scopo a cui aspira: farsi forma di razionalizzazione attraverso un meccanismo di gioco, di immaginazione (per dirlo con le parole di Rodari).

L’utilizzo di molteplice materiale video d’archivio, dal cinema muto ai manga giapponesi, e di citazioni letterarie, da Leopardi a Calvino, sembra finalizzato proprio a creare una cornice connotativa ai tre protagonisti della pellicola. Tre individui tanto dissimili quanto affini, le cui vite convergono in quello spazio domestico che condividono, in quella città che più e più volte (forse anche troppe) viene definita come uno spazio in bilico, geograficamente posizionato in quel 45° parallelo che lo rende un punto nodale ma allo stesso tempo ne vanifica la sua rilevanza spaziale. La Torino di Ferrario funge quindi da metafora di spazio vuoto e in costante equilibrio, tra tristezza e felicità, presente e passato. Un film che in quest’ottica si inquadra come cartolina nostalgica, i cui personaggi/funamboli si muovono sul filo di una corda o su superfici inclinate, insormontabili, combattuti tra il desiderio di raggiungere la meta e la tentazione di ritornare sui propri passi; e che restano invece lì, nel mezzo, in una inevitabile impasse, fino ad uno svuotamento di sé in un inarrestabile stillicidio identitario.

Il curato lavoro scenografico dà un apporto essenziale al film. L’arredamento della casa dei tre coinquilini è caratterizzata da un particolareggiato gusto pop, tra quadri rinascimentali e grottesche raffigurazioni dai colori saturi al limite del kitsch, tra le prime edizioni di libri polverosi e oggetti d’arredo iperrealisti. Sono individui che orbitano in un contesto postmoderno, dove l’appassionata lettura degli scritti leopardiani vengono alternati alla fruizione di manga erotici. Ugo (Walter Leonardi) legge il librone delle Operette Morali di Leopardi mentre prepara succulente pietanze in un una cucina che ricorda quella di Dillinger è morto, una chiara connessione tra i suoi due appetiti, intellettuale e corporeo.

Ma in fin dei conti Ferrario sembra lanciare i suoi personaggi come palline in un flipper impazzito, tra riferimenti implicite ed esplicite, tra puro citazionismo ed intertestualità autoreferenziale, riproponendo le immagini del suo documentario Sul 45° parallelo lasciate scorrere su uno schermo tv. Il regista cremonese resta quindi arenato sui soliti temi già triti e ritriti nei precedenti lavori (si veda Dopo Mezzanotte), infarcendo quest’ultimo lavoro di aspirazioni alla Wenders – i movimenti e i punti macchina iniziali sulla falsariga dell’incipit a Il cielo sopra Berlino –, forse col desiderio di conferire all’opera una visione altrettanto poetica; fino ad incursioni nel cinema di Marco Ferreri – da Dillinger è morto a L’ultima donna (la scena del salame tagliato con il coltello elettrico) –, oltre alle innumerevoli e spesso gratuite citazioni del poeta di Recanati ed un’eloquente struttura che suona come risposta a La grande bellezza di Sorrentino.

Seppur inattaccabili risultano le soluzioni estetiche, con inquadrature sghembe come rimando della condizione esistenziale dei tre protagonisti (come anche l’incursione nello zoo, che si configura come situazione speculare al loro vivere in gabbia), e richiamo a quella superficie ripida che Ugo tenta giorno dopo giorno di sormontare, La luna su Torino rimane insipido, forse per l’eccessiva ambizione di aprire tante finestre che però non vengono richiuse.

Un film che nasce da nostalgie ed Ostalgie (Ugo rincorre un burocrate impugnando una falce e un martello), che allo stesso tempo riconosce, disincantato, l’infruttuosità delle ideologie, pur continuando a propinarle attraverso i suoi personaggi, ostinatamente mossi dalla speranza di raggiungere la felicità. Una felicità che a volte coincide con la ricerca della propria identità (Maria), a volte con l’accettazione del proprio status ed una stabilità sociale (Dario) e a volte con il perpetuarsi di una vita libera, seppur disillusa (Ugo).

E non è forse questa l’aspirazione di tutti? La luna su Torino è quindi un film che tratta della vita e dell’unico, incontestabile, modo per sconfiggerne le brutture: fantasticare, sognare, raccontare. Un compito di cui la letteratura ed il cinema stesso si fanno carico, e a cui quindi Ferrario dedica questo film, tra citazioni sconnesse e spesso pleonastiche, ma che negli intenti ultimi del lavoro non suonano (quasi mai) inopportune.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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