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Adisa o La Storia dei Mille Anni, di Massimo D’Orzi: la recensione

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Europei prima ancora che l’Europa esistesse, i Rom – oltre dieci milioni nel nostro continente – rappresentano un sottobosco silenzioso nella coscienza civile contemporanea, una fiumana sconosciuta ed eterogenea, di cui si ignora la storia e il destino fino all’istante in cui la cronaca la trasforma in oggetto di disprezzo, biasimo e condanna. Adisa o La Storia dei Mille Anni, primo lungometraggio di Massimo D’Orzi, girato fra le comunità zingare della Bosnia Erzegovina, è un documento prezioso, che rinuncia ai toni invasivi dell’inchiesta, per illuminare con uno sguardo diverso una realtà vicina e al tempo stesso inaccessibile, ancorata a schemi che, dall’esterno, parrebbero statici e arcaici. Il film, uscito per la prima volta nel 2004, dopo il successo in Francia e le proiezioni in numerosi festival internazionali, torna in Italia il 23 febbraio, sugli schermi e in libreria, con un cofanetto (Libro + DVD), edito da Il Gigante Cinema e da Infinito Edizioni. La nuova uscita conterrà la ricostruzione della genesi del film da parte del regista, i contributi di Silvio Soldini, del critico cinematografico e documentarista Fabrizio Grosoli, dell’intellettuale e scrittore bosniaco Predrag Matvejević, della giornalista Silvia Angrisani e della montatrice del film Paola Traverso. In un’opera dove la giusta distanza è offerta dalla programmatica rinuncia a realizzare un documentario tradizionale, il regista e i suoi collaboratori (il direttore della fotografia e operatore Stefano D’Amadio, l’aiuto regista e secondo operatore Francesco Lomastro, e la guida, poi attore e interprete,  Jasmin Sejdic), al di là della macchina da presa, avviano un dialogo con i membri di un nucleo familiare di una comunità Kaloperi, i rom che hanno ormai abolito il nomadismo e vivono in case-baracche. Il continuo migrare, il vento che soffia, le tende e le roulotte: a ben pensarci, a questo si riduce la nostra conoscenza dell’universo rom, di cui il regista immediatamente svela l’inadeguatezza e la superficialità. Gli zingari Kaloperi non si spostano, i figli vanno a scuola e i padri hanno combattuto per la Bosnia, la loro terra, in una guerra che sono stati “l’unico popolo al mondo a non volere”. D’Orzi alza il sipario ed entra nelle loro case, trasformando  quello che si prospettava come un viaggio nei territori devastati dalla guerra, in un percorso intimista e rispettoso fra osservatori e osservati. Non un’analitica ricostruzione delle tradizioni e della cultura rom, ma l’assaggio di un macrocosmo differente e troppo spesso emarginato. Negli spazi claustrofobici delle abitazioni, nel chiaro-scuro innaturale che ammanta i racconti dei Kaloperi, nei primi e primissimi piani che occupano l’intero schermo si riversano gli scampoli di una storia che lotta quotidianamente per la sopravvivenza, di una molteplicità di comunità inscritte in sistemi che ben poco hanno a che fare con i nostri ordinamenti consolidati. Il regista rinuncia alla pretesa di un’artificiosa neutralità per approdare a una sorprendente intimità, al dialogo senza filtri con i membri della comunità, che rispondono alle domande e alle sollecitazioni dell’interprete, rivelando tratti e frammenti di un universo composito. Nessuna ricostruzione e nessuna struttura, nessun casellario preformato ad accogliere gli spezzoni di informazione, quasi che agli spettatori stessi fossero rilanciati gli interrogativi della troupe. D’Orzi non impone i nostri schemi a una cultura differente, ma lascia che due mondi si sfiorino per un istante e che l’uno possa accogliere l’umanità dell’altro, nella sequenza volutamente disordinata delle impressioni e dei racconti. Ad emergere è il senso profondo di una cultura legata all’oralità, alle lavorazioni artigianali, ai rapporti famigliari e a rituali di cui i più giovani sono spesso incapaci di cogliere il senso. A poco a poco, nel percorso ondivago del racconto, l’attenzione si concentra su alcune figure (la nonna, la piccola Adisa, la ragazza che allatta, l’uomo che forgia i metalli, il capo), specchi di una realtà che per comodità e pigrizia si vorrebbe uniforme e inconsapevole di quel che accade all’esterno, ma in realtà brulicante di vita e ricca di umanità. Alla fine si esce all’aria aperta, fra le valli e gli specchi d’acqua che avevano aperto il film, e si torna a respirare con una consapevolezza differente e inedita, che ha il sapore di una traversata di mille anni, illuminati dal sorriso di Adisa.