giovedì, Aprile 25, 2024

George Harrison: Living in the Material World di Martin Scorsese (Usa, 2011)

Nella produzione di Martin Scorsese, è noto, i documentari dedicati alle figure più celebri e prestigiose del rock sono un genere a sé. Dopo film concerto come The last waltz e Shine a light, e “ritratti d’artista” come Bob Dylan: No Direction Home, con questo documentario Scorsese valica la frontiera del mito e mette a nudo un George Harrison privato. Diversamente dal precedente lavoro su Bob Dylan incentrato su un preciso periodo delle carriera del menestrello di Duluth, la famosa svolta elettrica – stavolta il regista italo-americano decide di affrontare l’intera parabola umana dell’ex beatle.

Grazie a un grande lavoro di ricerca Scorsese riesce a incastonare, con lucidità e coerenza, una quantità esorbitante di materiale di vario genere, tra filmati e foto d’archivio, interviste, tracce musicali e alcuni video privati, dando vita a una cavalcata di suoni e immagini che raggiunge le tre ore e mezza senza mai annoiare. A intervenire con testimonianze, racconti e opinioni sono un gran numero di parenti, amici e conoscenti del celebre musicista: l’ultima moglie Olivia e il figlio Dahni; gli ex compagni Paul McCartney e Ringo Starr; poi Eric Clapton, Tom Petty, Jane Birkin, Ravi Shankar, Klaus Voormann, Yōko Ono, Terry Gilliam, Eric Idle, Phil Spector e perfino il pilota di Formula 1 Jackie Stewart. La prima parte obbligatoriamente corale, data la natura di “corpo unico” del quartetto di Liverpool racconta gli albori della band, l’incontro dei componenti, l’«arruolamento» di Harrison che convinse John Lennon, grazie alle note della famosa Raunchy, ad accoglierlo nel gruppo; il successo planetario immediato e inaspettato, la miriade di concerti in giro per il mondo, l’aumento degli zeri in banca e infine il dilagare della filosofia “alternativa” beatlesiana, tra ribellione, rifiuto degli ingessati valori tradizionali, viaggi iniziatici verso Oriente e sogni traslucidi all’Lsd. Scorsese sottolinea qui i fattori embrionali che successivamente porteranno Harrison a determinate scelte di vita, come ad esempio la spiritualità. Dalla seconda fase dell’avventura beatlesiana in poi, the quiet one si avvicina a pratiche di meditazione e ascesi desunte dall’induismo, nella speranza di trovare un eden interiore, una via per sfuggire al materialismo che secondo lui minava la civiltà occidentale e soprattutto un rimedio alla pesante dipendenza dalle droghe.

Nella seconda parte del documentario Scorsese affronta la fase solista di Harrison, iniziata con la pubblicazione del triplo album All the things must pass (1970), opera che riflette sulla caducità delle cose terrene ed esalta la fede in Hare Krishna. Seguono poi i filmati del monumentale concerto di beneficenza al Madison Square Garden,  realizzato per i profughi della guerra civile scoppiata in Bangladesh nel marzo del 1971. Ma Harrison non si è cimentato soltanto in iniziative musicali: fan accanito dei Monty Python, affascinato dal loro film Monty Python and the Holy Grail (Monty Python e il Sacro Graal, 1974), accetta entusiasticamente di finanziare quel che sarebbe diventato un autentico cult della comicità anarcoide e surreale made in England, Life of Brian (Brian di Nazareth, 1979).

Si arriva al 1988, anno in cui Harrison, che ambiva già da tempo a radunare in un supergruppo tutti i maggiori talenti mondiali della musica, riesce a dar vita a The Traveling Wilburys, una band che mette insieme nomi come Roy Orbison, Tom Petty, Jeff Lynne e Bob Dylan. L’ultimo capitolo, il più delicato e struggente, ha infine per protagonista la moglie Olivia Trinidad Arias, colei che restò al suo fianco durante la lunga malattia e che con lui subì la drammatica aggressione di uno squilibrato (verso la fine del 1999) che introdottosi nella villa della coppia accoltellò il musicista che tuttavia riuscì a scampare alla stessa infausta fine del suo amico Lennon.

Con grande equilibrio e controllo, grazie anche al fluido montaggio di David Tedeschi, Scorsese è riuscito a rischiarare gli anfratti più in ombra della personalità dell’ex beatle. Il più ermetico dei quattro, forse il più sensibile, anch’egli figlio delle inquietudini e degli smarrimenti della beat generation (atmosfera ben nota allo stesso regista). Un uomo turbato da un successo travolgente e prematuro, dal quale ha cercato di difendersi aspirando, pur attraverso vaghe e non sempre chiare tendenze parareligiose, a un punto di bilanciamento fra sé e il mondo. Fra spirito e materia.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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