venerdì, Marzo 29, 2024

Korea Film Fest 2012 – Arirang di Kim Ki Duk (Corea 2011)

Nel 2008 Kim Ki-duk arriva alla resa dei conti con sé stesso. Il pretesto é noto, un incidente clamoroso sul set di Dream che stava costando la vita all’attrice. Kim accorse con la scala e la salvò da sicura morte per impiccagione. Incidenti sulla scena non erano nuovi per lui, spesso nei suoi film la difficoltà di certe riprese aveva messo a dura prova le risorse del cast, ma un bel giorno arriva l’ora segnata dal destino, qualcosa si spezza dentro e decide di andarsene. Tre anni in una catapecchia fuori città, non si può neanche chiamare campagna, disseminata com’é di insediamenti indefinibili, capannoni o abitazioni, visti così in lontananza dal rilievo su cui spunta l’abitazione. Scarsa vegetazione, sterpaglia e pietraia, colline a distanza. Un hinterland anonimo, non ingentilito da nulla che consoli come un’immersione nella natura, arredo ai minimi di sopravvivenza, il gatto di casa, unica voce e compagnia, sembra meglio fornito del suo padrone. Una tenda al centro della stanza ripara in qualche modo dal freddo della notte, quando la lunga zip è aperta s’intravedono un giaciglio sfatto e un computer. Kim, trasandato poco meno di un homeless, si aggira indaffarato in attività basic: tagliar legna, accendere il fuoco, farsi da mangiare, trasformare la neve in acqua per bere e lavarsi, mangiare da ciotole o attingere ad una mini-riserva di bei frutti colorati allineati su una mensola, addentandoli in primissimi piani di travolgente insignificanza. Kim guarda fisso un punto davanti a sé. E’ qui che ci accorgiamo della finzione, c’è un suo doppio, è una videocamera Mark II, o forse é quel tizio che bussa più volte alla porta e mai compare quando viene aperta, ma poi il fantasma si materializza e lo investe di domande e rimproveri, ed è lui, dopo un’ennesima bevuta di pessimo Cool a 16 gradi, che chiede a sé stesso:

Ti piace? dimmelo.Vivere in una baracca così fredda da  doverci mettere una tenda? Bere per tutto il giorno in questo modo?
Che cosa sei? un cane? mangi nella ciotola di un cane…
Dimmelo, bastardo…
In molti aspettano i tuoi film, bamboccio!

 Ready…action…parte il mockumentary di Kim su Kim, e sarà un fluviale stream of consciousness, una seduta di autocoscienza, un “conosci te stesso” realizzato con uno  sdoppiamento necessario fra soggetto contemplante e oggetto contemplato, essere e pensiero, per raggiungere la verità che deve zampillare libera, una volta rimossi i sassi lungo il corso. Nulla che stupisca in questo approdo di Kim, figlio di un Oriente che non conosce le barriere del razionalismo occidentale e sa che  bisogna “sprofondare in sé stessi” per trovare la propria liberazione. De-costruirsi per ri-costruirsi, dunque, e il regista lo fa davanti al suo pubblico, alla fine del terzo anno di volontario eremitaggio. Kim ha girato quindici film in tredici anni, è stato travolto da un successo mondiale a cui stentava a credere, lui povero, incolto, ex operaio, artista di strada a Parigi (una collezione di suoi quadri è fatta sfilare in finale di lungometraggio, narcisismo che lo accomuna a Kitano e che gli perdoniamo sorridendo).

Eppure non erano il successo e il denaro a renderlo felice, era il poter girare film dicendo così quello che aveva da dire. Poi qualcosa dentro di lui si è interrotto, quel fluire libero dell’ispirazione, la gioia di creare immagini e raccontar storie senza tregua, ammazzandosi di lavoro.

Ora non posso girare film, quindi riprendo me stesso. Riprendendo me stesso voglio confessare la mia vita, come regista e come essere umano”.

Anticipa il film che vorrebbe girare, lo scrive al computer sotto la tenda e parla di quel soldato americano della guerra di Corea che, dopo trent’anni, recupera il corpo dell’uomo che ha ucciso solo quando ha ritrovato il suo antico “io”, indossando l’uniforme e imbracciando il fucile. Ritrovare sé stessi, dunque, in quello che si é stati, e ricostruire un’unione scissa dalla vita in tante parti. Ora Kim non può girare quel film, i motivi sono vari, dice, ma sente che non può. In questo outing davanti al suo specchio/videocamera il viso è attraversato dalle emozioni, la voce si altera, a volte si spezza, parla di delusioni e frustrazioni, di amici che si vendono per un pugno di soldi, di un milieu di seguaci sempre alla sua porta, e di lui che credeva in loro e poi fu lasciato solo, “nelle mani del capitalismo occidentale”, del suo entusiasmo, forse ingenuo ma autentico, che crolla e la depressione si fa strada così…

“…le persone non riescono a stare insieme a lungo, perché ognuno ha i propri sogni, nessuno mette l’amicizia prima di queste cose…Ti senti ferito perché loro erano come una famiglia per te, Non si può continuare a mangiare sempre la stessa cosa, adoro i contorni, questa è la vita, l’hai detto in molti tuoi film, ma non stai vivendo come nei tuoi film.Non sei deciso e risoluto come i personaggi che hai creato…Nei tuoi film ci sono personaggi forti come animali selvaggi,ma perché tu sei così ingenuo?”

Kim racconta al suo alter ego che non gli somiglia più di quel trauma sul set di Dream, del senso del suo lavoro, della morte…

per me la morte era una porta mistica su un altro mondo. Ho però capito che la morte può essere un crimine che infrange i sogni di una persona…non si può considerare una forma di speranza…la morte è bianco che diventa nero, semplice. Si scrivono libri, poesie sulla morte, la si elabora, ma la morte è come una scogliera, una porta che si chiude, una luce che si spegne.

La morte è solo…essere molto diversi da quello che si è ora…

Dalla meditazione sulla morte al senso della vita, Kim torna al suo passato, a quei film girati senza tregua, “come un pazzo”, amati e odiati, definiti grezzi, ingenui, innocenti e anche frettolosi, ma immediati, girati con passione, contento di fare quel mestiere rispettabile che è fare il regista, dopo aver lavorato in rottamai e fabbriche di elettrodomestici.

Ero solo, non pensavo mai di ottenere il rispetto della gente e poi sono diventato un cosiddetto regista di fama mondiale…fare film era un lavoro felice, ma improvvisamente è stato come essere colpiti da un martello. Sono stato traumatizzato durante le riprese di un film e poi alcune persone mi hanno fatto del male. Le persone sono terrificanti. Ho donato loro il mio cuore, mi hanno pugnalato al cuore, e così ho perso la fiducia…

Inizia qui il suo canto, Arirang

 Sulle colline Arirang mandami per favore…

  spiega:

 Negli ideogrammi cinesi la parola significa auto-affemazione, per me Arirang è una collina, le colline della vita, vanno su e giù, su e giù…

 Piange mentre canta, questo autoraccontarsi non segue un copione, deborda senza freni né ordine, ci sono parole chiave, grumi di sofferenza che si condensano e lui tenta di dare un nome.
Solitudine è la più forte. Smarrimento, perdere il senso di quello che si è fatto caparbiamente per tanto tempo.

A volte penso di essere buono solo a continuare a vivere in questo modo…ma poi percepisco anche il fatto di non vivere realmente la mia vita

 Il montaggio è significato e così, mentre parla, col suo faccione in primo piano sempre invaso dai capelli ribelli, si muove per la stanza, cuoce la zuppa, arrostisce un pesce in uno strano modo nella stufa, lo filma da vicino mentre lo apre col coltello e lo spina. Minimalismo di gesti in uno spazio angusto catalogati con cura, è un azzerare, un ricominciare da capo dopo aver detto basta. Non è un caso che gli unici film che cita siano quelli che forse ama di più, i primi, Crocodile a Adress Unkonwn, e la sequenza della salita al monte del monaco di Primavera, Estate…. Cominciò da lì, Kim Ki-duk, con quel campionario di distruttività e violenza, ad esorcizzarla. Violenza morale, più che fisica, e spesso diceva ai suoi critici:

“Avete mai veramente guardato le vite che mostro nei miei film? Avete mai visto sul serio il grido disperato che c’è nei miei lavori?”

 Ora é lui il protagonista, lo chiama documentario e film insieme, anzi, meglio, un film drammatico con ripresa diretta, senza bisogno di luci, troupe, logistica…

Sono uno scrittore, e allora penso sempre a come rendere il film più drammatico, come ora, forse sto recitando, forse prima ho pianto per accrescere l’effetto drammatico…per dimostrare che sono ancora un regista…

 Il dubbio lo inquieta, Kim non è un intellettuale, un teorico del cinema, un fine indagatore di questioni di estetica, ma con le sue parole, un po’ urlate e un po’ viscerali, tocca il fondo, il nocciolo duro di un, potremmo definirlo, di cosa parliamo quando parliamo di cinema? Fare cinema é stato imboccare una strada, immagini, parole, movimento hanno detto di lui e del cinema più di quanto facciano tanti bei discorsi. Ora quel mondo e quel sé stesso sono come oggetti nelle sue mani, e lui guarda e giudica, tenta di capire.

“Rapisco la gente mainstream nel mio spazio, mi presento come un essere umano e chiedo loro di stringermi la mano. Così non hanno più paura delle mie posizioni” aveva detto un giorno.

Forse sta continuando a dirlo, ma stavolta, come si suol dire, fuor di metafora, fuori dai limiti di tempo di una fabula (Arirang deborda anche nella durata), fuori dai gangheri, con quella pistola puntata e quel canto urlato, fino alla fine…

Arirang, Arirang, Arariyo, sulle colline Arirang mandami per favore…

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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