venerdì, Aprile 19, 2024

C + C = Maxigross – Il folk espanso di Fluttarn: l’intervista

Come nelle migliori tradizioni americane ma non solo, accade che una band trovi le proprie origini personali ed artistiche in un luogo isolato, nella specie i monti della Lessinia vicino Verona. In tale indissolubile contatto con la natura e con le proprie tradizioni culturali i C + C = Maxigross abbracciavanoil folk nella sua più completa accezione con il loro secondo lavoro intitolato Ruvain e pubblicato due anni dopo Singar, l’esordio per Vaggimal Records. In quel disco le radici della band dialogavano con i Fleet Foxes ben posizionati sul comodino, solo per citare il riferimento temporalmente più vicino.

Quasi a riprenderne le fila, Fluttarn si inserisce in quel solco sin dal suo incipit corale ed innodico (You Won’t Wait at the Arrival) per poi indirizzarci su tutt’altra strada, con a mente il semplice concetto che un background “tradizionale” può (ed in certi casi, “deve”) diventare patrimonio collettivo, se presentato in certe forme ed in certi canoni.

La band veronese rende propri i canoni del folk–rock classico anglosassone, rescindendo tutte le distanze possibili tra California, East Coast, Liverpool e Londra e scegliendo  di contro dalla propria ampia tavolozza timbrica un limitato arco temporale (i primi ’70, non a caso si peritano di “precisarlo” in Est 1973).

Con grande abilità riescono quindi a sintetizzare felicemente tali corto circuiti spazio–temporali, tanto da far sembrare il classico come fosse scritto oggi e la propria musica come fosse stata concepita quarant’anni fa.

Con gran disinvoltura, si passa dalla post–psichedelia cullante di Born Into It ad una improbabile ma azzeccatissima fusione tra Beck e una coda dilatata stile Sigur Rós (Bruce Skate) per passare a filastrocche tra banda di paese e pianoforte con fiammate glam e hard–rock (Everytime I Listen to the Stones) fino a morbide ballad tra cui occorre citare Let It Go e sopratutto la splendida Est 1973, un quadretto con contrappunto di banjo tra Neil Young e Ryan Adams che sembra tagliata per un film di Cameron Crowe.

Ma c’è spazio anche per i ritornelli accattivanti anche meglio degli originali come per esempio nella mccartneiana An Afternoon with Paul che ci conduce dritta all’arioso finale  di Moon Boots, brioso power pop in stile anni ’90 e alla grandeur psichedelica di Rather Than Saint Valentine’s Day Part III.

In quest’operazione che vede al primo posto una qualità dell’arrangiamento davvero invidiabile, basta pensare all’utilizzo delle armonie vocali, sempre intelligente e mai lezioso, la scrittura trova coerenza attraverso un sound sfaccettato dove la personale visione dei classici è affrontata con affettuoso rispetto e permeata da una giusta dose di consapevole naïveté che brucia ogni sospetto di presunzione e “autorialità” da cui gran parte dell’indie italiano è irrimediabilmente affetto.

Per chi scrive, una delle migliori uscite dell’anno appena trascorso e ancor più interessante da vedere nelle esibizioni dal vivo, in cui la componente acustica viene affrancata del tutto in favore di sfuriate hard che lasciano già intravedere sviluppi ancor più interessanti per la produzione futura.

Cast ricchissimo: tra gli altri, sono ospiti Miles Cooper Seaton, Håkon Gebhardt, Marco Fasolo e Martin Hagfors, quest’ultimo già con la band veronese per il lavoro condiviso intitolato “An Instantaneous Journey With Martin Hagors & C+C=Maxigross

In  occasione del loro live al Glue di Firenze andato in scena lo scorso 14 novembre 2015, abbiamo incontrato Tobia Poltronieri e Filippo Brugnoli, oramai gli unici superstiti della line–up originaria e ci siamo fatti raccontare la genesi di Fluttarn e le conseguenti esperienze.

 

Ho notato in questo disco una sorta di lavoro “in espansione”. Se in Ruvain abbracciavate a piene mani la musica folk, popolare per definizione, in Fluttarn è riscontrabile l’obiettivo di riprendere canoni tipici della popular music a tutto tondo. Me lo confermate?

TP: verissimo. Anche se alcune di queste canzoni le provavamo già quando stava uscendo in giro il vecchio disco, nell’ultimo anno e mezzo abbiamo cominciato ad allargare i nostri orizzonti di ascolto anche oltre il classico “pop–folk–rock” anglo–americano. Il disco si posiziona esattamente nel mezzo tra gli ascolti, per così dire, classici e quel momento in cui avevamo in mente di andare oltre.

Cosa c’è di più popolare in Fluttarn rispetto a quello che c’era di popolare in Ruvain?

FB: Secondo me i lavori precedenti erano pop, popolari e folk in maniera inconsapevole, in Fluttarn c’è di sicuro una ricerca esplicita e consapevole in tal senso, in termini di struttura,suoni e arrangiamenti. È il primo disco che consideriamo come blocco unico, un unico progetto. Prima era tutto meno “pensato”.

E le vostra progressiva e intensa crescita live, quanto ha influenzato le nuove composizioni?

È un discorso sempre legato alla consapevolezza, sia pur relativamente. È vero, abbiamo fatto tanti concerti ma questo ci ha più che altro influenzato nell’attitudine, anche perché come ti ho detto, molte canzoni sono nate ancora prima, in un periodo in cui ci facevamo meno domande. Abbiamo abbastanza slegato l’attività in studio da quella live, il che ci apre ancora più strade.

Quali sono queste “canzoni–ponte”?

TP: quella che canta Niccolò, il batterista, che si chiama Let It Go, che ha portato all’ultimo momento, poi tanti intermezzi che abbiamo aggiunto e dilatato, proprio in base all’esperienza di cui si parlava prima. Ma, come vedrai, il live con il disco non c’entra niente

C’è forse l’intenzione di un maggior coinvolgimento sonoro, più “di pacca”? Il che sarebbe un bello stravolgimento per voi…

TP: più che la pacca, stiamo cercando di trovare un suono che per ora è bello stratificato ma che abbia ancora maggior “presenza” fisica, per questo l’acustica in questo momento non ci stava, dopo esser stata onnipresente sino ad un annetto fa.

Mi piace pensare a Fluttarn come ad un disco a suo modo enciclopedico, in cui ciascuno di voi ha riversato molto del proprio vissuto culturale e personale. Mi raccontate brevemente questo travaso?

TP: abbiamo finito il tour nell’ottobre 2014, c’erano un po’ di canzoni scritte e volevamo subito iniziare a lavorare al nuovo disco e questa cosa ci ha un po’ deviato, perché abbiamo iniziato a registrare tutto, sino ad ottenere un sacco di materiale, poco prima dell’estate. Ma era tutto troppo lungo e senza troppo senso. Poi è arrivato Miles Cooper Seaton con cui avevamo già suonato insieme e ci ha detto chiaro e tondo: “non funziona”. Aveva ragione e abbiamo tagliato e rimontato un sacco di roba, per poi rifinirla: questo è stato un momento decisamente importante.

In un mercato come quello italiano, quale aspettative può generare un disco come il vostro? I concerti possono far gioco?

FB: fare un ragionamento sulla lingua del disco è ovviamente da superare. Un disco raggiunge quello che deve raggiungere, indipendentemente dalla lingua. Poi è chiaro che essendo italiano avrà qualche difficoltà in più. Ma decisamente non ci siamo posti il problema, la musica chiamava l’inglese ed è stato assolutamente naturale.

Vorrei concentrarmi adesso su due brani che riassumono abbastanza bene il senso dell’intero lavoro, ossia Est 1973 e An Afternoon with Paul. Come avete costruito questo ponte ideale di pochi minuti tra Inghilterra e sud degli Stati Uniti?

TP: in realtà ogni pezzo ha una sua storia. Est 1973 l’ho scritto io e l’abbiamo pensato in presa diretta, a parte le sovraincisioni di steel guitar e banjo fatte in Norvegia (di Hagfors e Gebhardt, ndr), richiama un po’ quelle atmosfere à la Harvest. L’altra invece è nata proprio strimpellando tra di noi e da lì ci abbiamo lavorato cercando di mischiare il pop british a synth più moderni con una coda ambient rumoristica e addirittura psych–soul… Non abbiamo ancora lavorato nelle due maniere “estreme”, ad esempio improvvisando totalmente o al contrario lavorando in fase preliminare qualsiasi minimo dettaglio.

Però questa coerenza di fondo sembra data da quest’utilizzo della batteria sempre così aperta. Qualche dettaglio sulle tecniche di registrazione?

TP: effettivamente il nostro fonico ha rilevato che il filo conduttore, a livello di sound del disco, è sempre la batteria. Anche se a livello di set–up abbiamo sempre cambiato un po’ le cose, questa caratteristica è rimasta immutata. Ruvain era praticamente tutto in presa diretta, qui no: proprio perché ci siamo presi i nostri tempi, abbiamo registrato un pezzo alla volta, alla vecchia maniera.

Due parole sugli ospiti.

FB: partiamo con Marco Fasolo, produttore già di Ruvain, nei cui confronti c’è sempre stata un’amicizia e stima umana sincera, certe volte però è inafferrabile quasi vivesse in Alaska… Poi abbiamo Håkon Gebhardt, storico batterista dei Motorpsycho che ha suonato il banjo in Est 1973; altro norvegese, Martin Hagfors, che canta in Moon Boots, nel quale a sua volta suona la chitarra Miles Cooper Seaton con cui abbiamo lavorato tanto e che è la vera e propria “guida spirituale” dell’album. Ci sono poi vari amici veronesi e non, tra cori e roba varia.

Fluttarn è naturalmente deputato ad una corposa attività all’estero. Cosa vi aspettate in tal senso?

TP: beh, è nei nostri piani, abbiamo un ottimo booking europeo che ha in roster tanti artisti interessanti. Siamo stati in Germania quattro volte e ci siamo trovati molto molto bene, oltre ad altre date sporadiche che abbiamo fatto in giro per l’Europa. Lo stiamo facendo e siamo ben contenti di dedicarci così tanto impegno.

Vi piace comunque questo modo in cui il mercato ha “costretto” l’artista ad essere sempre “sul pezzo”, per dire, “a tempo pieno e a tempo indeterminato”? Ritenete che questa condizione lavorativa ed esistenziale sia indispensabile?

FB: si può dire che è un piacevole obbligo perché se vuoi far musica bene la devi fare a tempo pieno e se inoltre ci vuoi anche campare, non puoi fermarti. E visto che ci piace, è un piacere. Prenderci tante pause sarebbe una follia e comunque, fosse per noi, non ci fermeremmo mai.

TP: se ci pensi poi è una cosa che cambia da band a band, vedi i Verdena e le pause immense che si sono presi tra un disco e l’altro. Vuol dire che comunque puoi permetterti di metter via dei soldi, stare fermo e pensare al disco nuovo. Ma vedi, al contrario, Neil Young che a metà anni ’70 sfornava dischi incredibili a distanza di sei mesi. Casomai è in qualche modo un limite la costruzione predeterminata dei tempi tra registrazione, missaggio, post produzione, promozione, e via dicendo.

Dove vanno ora i C+C=Maxigross?

TP: innanzi tutto, l’ingresso di Camillo e dei suoi sintetizzatori ha apportato molte novità, soprattutto a livello di stratificazione di suono, un mondo sonoro decisamente diverso. Ci stiamo “dilatando” in questa direzione, cercando di jammare sempre di più e di apportare qualche approccio “jazzistico” in questa direzione

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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