giovedì, Aprile 18, 2024

Eaves – What green feels like: la foto intervista

What Green Feels Like di Eaves è uno degli esordi discografici più interessanti della prima metà del 2015, grazie a una scrittura e a una cura negli arrangiamenti e nelle scelte sonore che guardano principalmente agli anni Settanta del prog più libero e multiforme senza però rinunciare alla freschezza legata alla giovane età dell’artista inglese, poco più che ventenne ma già con le idee ben chiare su come deve essere la sua musica.

Ce l’ha dimostrato lo scorso 8 luglio al Magnolia, dove si è esibito in un live solo acustico in occasione di Unaltrofestival, rispondendo con entusiasmo alle nostre domande sul suo disco e sugli artisti che più l’hanno influenzato dall’adolescenza ad oggi. Ecco quindi il nostro viaggio nella musica di Eaves, a partire dal suo passato e con più di uno sguardo sul suo futuro, che appare luminoso.

Inizierei con una domanda classica per un giovane musicista come te: puoi raccontarci qualcosa sulla tua storia musicale, dagli inizi fino all’uscita del tuo disco di esordio?

Sono cresciuto a Bolton, che è una città dalle parti di Manchester. Mia madre era una musicista classica, mentre mio padre ascoltava musica decente, come lui amava dire. Quindi sono cresciuto imparando a suonare il piano, ma poi l’ho abbandonato da teenager perché pensavo che non fosse cool. Poi ho preso in mano la chitarra perché un mio amico voleva che mi unissi alla sua band. Quindi ho iniziato a scrivere musica per la band, approfondendo soprattutto il rock classico degli anni Sessanta, ad esempio Jimi Hendrix o i Led Zeppelin, e poi i cantautori, come Bob Dylan o Leonard Cohen. Poi a un certo punto sono come fuggito dalla mia città natale, sentivo che dovevo andarmene per poter scrivere, e sono andato a Leeds. Inoltre ho deciso che avevo bisogno anche di un moniker, così ho cambiato nome e sono diventato Eaves. Ho iniziato a far sentire in giro la mia musica e mi sono preso tutto il tempo necessario per scegliere la miglior etichetta, il miglior booking e in generale il miglior management per gestire la mia carriera.

Eaves – Dove In Your Mouth – video ufficiale

Il disco è uscito per la Heavenly. Come sei arrivato a loro? O come loro sono arrivati a te?

Ci ho messo circa un anno a decidere. Ho avuto incontri con qualche major, come Columbia e Virgin, le più ovvie per il Regno Unito, e anche con qualche indipendente. Io sapevo cosa volevo fare, dove volevo essere e che tipo di musica volevo fare, e tutte le etichette che ho incontrato mi dicevano che per loro era ok e che credevano in me. Poi quando ho incontrato la Heavenly è stato diverso, non sono dovuto andare in un palazzo di vetro con gente vestita alla moda, ma ci siamo bevuti una birra in un pub parlando solo ed esclusivamente di musica, loro hanno creduto a quello che dicevo e io ho creduto a loro quando mi dicevano che mi avrebbero dato la totale libertà di fare quello che volevo. Quindi è stata l’opzione più facile da scegliere, sono stato molto felice di essere coinvolto in ciò che stanno portando avanti.

Alcune delle tue canzoni sono piuttosto lunghe, fino a quasi nove minuti. Come lavori a questo tipo di brani? Hai un’idea fin dall’inizio o le costruisci pezzo per pezzo?

Parto dalle sezioni e poi le assemblo in modo da costruire le canzoni, faccio così. Ho impiegato fino a due anni per mettere assieme alcune delle canzoni del disco, per altre sono bastate un paio di settimane. Non è un procedimento semplice, non basta sedersi a un tavolo come se stessi bevendo un caffè e unire le sezioni, c’è un lavoro molto più complesso dietro. La mia musica discende dal rock progressivo e dal jazz, quindi non riesco a limitarmi come fanno molti cantautori, mi piace anche sperimentare con gli strumenti, avere sezioni di fiati oppure dieci chitarre. Poi però una volta che ho l’idea finale per la canzone la fase di registrazione diventa molto più semplice.

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Per esempio, puoi raccontarci qualcosa su Hom-A-Gum, che è una di queste canzoni lunghe?

È una di quelle che ho scritto in due anni, ho scritto i versi principali e i riff, ma c’era qualcosa che non mi convinceva perché tutte le sezioni erano nella stessa chiave e anche il testo mi sembrava progredisse in maniera troppo uniforme. Poi col tempo mi sono immaginato le parti di fiati e le parti di chitarra, ma ero da solo allora, non avevo una band, poi quando ho iniziato a lavorare con altri musicisti ci sono tornato sopra e ci ho lavorato in maniera molto libera, quasi senza una scopo. Poi è diventata una delle mie canzoni preferite, anche perché abbiamo sperimentato molto facendola, per esempio usando beats elettronici e anche campioni, è una canzone davvero molto sperimentale e psichedelica. Parla essenzialmente della mia città e della mia famiglia e del fatto che quando te ne vai da un luogo poi vedi le cose da una prospettiva diversa e riesci a capire meglio i problemi che avevi lì. È una canzone sulla speranza, da un certo punto di vista.

Tra le canzoni brevi mi piace particolarmente As Old As The Grave. In questo caso invece quanto ci hai messo a scriverla?

Una settimana, più o meno. Ho scritto il testo basandomi su una linea vocale che avevo in mente già prima di aver scritto una singola parola. Quindi mi sono messo a lavorare solo su di essa per quattro giorni consecutivi, senza fare altro, a volte capitano questi momenti di impeto creativo. Poi ho iniziato a suonarla e col tempo sono diventato sempre più sicuro della validità della canzone, quando poi ho iniziato a lavorarci con la band e il batterista ha tirato fuori quel ritmo ho capito che la canzone era finita.

In molte recensioni si leggono tra le tue influenze i due membri della famiglia Buckley. Chi preferisci tra Jeff e Tim?

Tim, assolutamente! Mi piace per la progressione artistica che ha fatto. Si può dire che ha fatto quello che io voglio fare con la mia musica: ha iniziato come cantautore e poi è progredito, senza interessarsi di come sarebbe cambiata la sua carriera, ma solo pensando alla musica che creava. Secondo me quello è lo scopo finale, l’unica cosa che si dovrebbe fare quando si fa musica. Ora che ho trovato la mia band è quello che cerco di fare, sono musicisti incredibili che mi permettono di progredire tantissimo, il secondo disco è già quasi finito e secondo me sarà un’evoluzione importante per me e la mia musica. Penso di avere imboccato un lungo sentiero che mi porterà ad essere qualcosa di diverso da un cantautore, a seguire la mia idea di musica.

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Ho letto che sei ispirato anche da band heavy come i Mastodon o gli Opeth. In che modo la loro musica ti ispira? Per esempio io ho trovato qualche similitudine tra la costruzione dei crescendo degli Opeth e la tua, con le debite proporzioni di impatto e volume…

Sì, penso che ci siano similitudini, anche perché è normale ispirarsi ad altri per particolari costruzioni, che forse si possono fare solo in un modo e che loro hanno ottimizzato. Di quelle band mi piace molto anche il lavoro delle chitarre, specialmente Brent Hinds dei Mastodon ha un suo stile, che è una specie di finger-picking che non capivo come funzionasse finché lo ascoltavo soltanto senza averlo visto dal vivo. Poi riescono a inserire questi suoni all’interno di enormi lavori di songwriting e di produzione ed è stupendo. Allo stesso modo mi piacciono i Pink Floyd, i Rush, tutto il progressive rock, voglio applicare queste lezioni al secondo disco, che sarà più vicino al progressive e un po’ più lontano dal cantautorato.

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L’anno scorso sei stato in tour con Philip Selway. Come è accaduto? Com’è andata? E cosa hai imparato dall’esperienza?

Philip è veramente una grande persona, una delle più gentili che abbia mai incontrato. Ho colto l’occasione quando me l’ha proposta la mia agenzia di booking, anche perché io sono un grandissimo fan dei Radiohead e penso che Philip sia un elemento fondamentale del loro suono. Ai tempi non avevo ascoltato i suoi lavori solisti, quindi mi sono trovato a vedere dal vivo lui e la sua band, formata da musicisti eccezionali, che facevano questo genere indefinibile, che è prog ma indie, che ha elementi folk ma con anche l’elettronica, una cosa incredibile. Guardandoli ho capito che facevano quello che io voglio fare, quello che dicevo prima, fare musica per il gusto di farla. Loro non avevano paura di suonare progressive, di lavorare duramente sul suono quando sono sul palco, anche se nessuno se ne accorgeva perché riuscivano a farlo sembrare facile e naturale. Quindi ho pensato che era possibile, se c’era ancora gente che comprava biglietti per vedere quel tipo di musica, allora c’era qualche possibilità anche per me.

Cosa dobbiamo aspettarci da un tuo concerto? E ci sono differenze tra quando suoni ai festival e quando invece sei in posti più piccoli?

Nell’ultimo mese ho suonato con la band in grossi festival, davanti anche a ventimila persone. Stasera invece mi esibisco da solo, ed è una bella sfida perché il disco è molto band-oriented, mentre se devo suonare da solo devo un po’ tornare indietro agli esordi, prima che riuscissi a formare la band.

Ultima domanda: dove e come ti vedi tra dieci o venti anni?

Mi piace scrivere: ho scritto oggi, scriverò domani, quindi mi piacerebbe continuare a farlo senza interruzioni e fare un disco all’anno. Quindi tra dieci anni spero di essere in studio a fare il decimo album, con lo stesso spirito di oggi e divertendomi allo stesso modo.

Eaves – album teaser

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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