venerdì, Marzo 29, 2024

METZ, la foto-intervista in esclusiva @ Indie-Eye

I METZ hanno fatto passare quasi cinque anni dalla loro nascita all’uscita del loro primo omonimo album, datato 2012 e pubblicato nientemeno che dalla Sub Pop, la leggendaria etichetta americana che ha deciso di puntare su di loro anche se esordienti. Fiducia ben riposta quella dei tipi di Seattle, data l’altissima qualità della proposta musicale della band canadese stanziata a Toronto, capace di mescolare rumore e melodia come solo il meglio della musica indipendente degli anni Ottanta e Novanta sapeva fare, dagli Hüsker Dü in avanti. Una miscela esplosiva anche dal vivo quella dei METZ, che mi colpì molto in occasione dello scorso Optimus Primavera Sound di Porto, dove li vidi in azione pochi minuti dopo gli Shellac, in confronto ai quali non sfigurarono per niente, ovviando con la forza della giovinezza alla mancanza di esperienza. Abbiamo intercettato la band in occasione del loro ultimo passaggio dall’Italia, lo scorso mese di novembre, riuscendo a chiacchierare con Alex Edkins, voce (anche nell’intervista) e chitarra, e Chris Slorach, bassista, e scoprendo un po’ di cose interessanti sulla loro fin qui folgorante carriera.

Le foto dell’articolo sono di: Francesca Pontiggia

La prima domanda è sul vostro primo disco, che dopo una serie di sette pollici, è uscito per la Sub Pop. Come siete entrati in contatto con quell’etichetta?

Nel vecchio classico modo, gli abbiamo mandato la nostra musica e ci hanno risposto dicendo “hey, lavoriamo assieme e facciamo uscire il vostro disco”. Ha aiutato anche il fatto che avessimo suonato un po’ di volte con gruppi della Sub Pop, come i Mudhoney e gli Obits, che ci dissero che l’etichetta era perfetta per fare uscire il nostro disco e per lavorarci nel modo giusto. Dopo una data in particolare fu Mark Arm a suggerircelo e ad aiutarci a contattare l’etichetta. Oltre a tutto questo, eravamo naturalmente fan della label fin da quando eravamo ragazzini.

Avete fatto passare quattro anni dalla vostra nascita all’uscita dell’album. Come mai avete aspettato così tanto? E che ruolo hanno giocato i singoli usciti nel frattempo per la vostra evoluzione?

Non abbiamo aspettato per qualche motivo particolare, semplicemente vivevamo le nostre vite, facevamo altri lavori e suonavamo quando riuscivamo per il solo amore della musica. Non abbiamo fatto un album perché non avevamo il materiale, non ci sentivamo al punto giusto per far uscire qualcosa, se l’avessimo fatto avremmo probabilmente avuto dei rimpianti. I singoli erano la via per provare, per capire dove eravamo e cosa potevamo fare di noi come musicisti, come band e come persone. In questo modo abbiamo capito i nostri punti di forza e le nostre debolezze, cosa ci piaceva e non piaceva fare. I singoli quindi sono stati il modo in cui ci siamo immaginati come doveva essere il nostro album.

Wet Blanket è stato il secondo singolo del disco, quello spinto maggiormente perché accompagnato anche da un video. Perché avete scelto quel brano dopo il primo singolo, che era Headache?

È stato scelto dall’etichetta, perché noi avevamo un’idea diversa. Però noi avevamo ascoltato il disco troppe volte, quindi era giusto sentire anche cosa pensavano gli altri, l’etichetta e una serie di amici di cui ci fidiamo. Credo sia stata una combinazione di cose a portare alla scelta. Il brano mostra due lati differenti del nostro suono, c’è una parte di veloce e frenetico punk-rock, seguita da una sezione centrale più psichedelica e sperimentale, quindi ci piaceva l’idea che si sentissero diverse nostre influenze, non una sola, come invece accade in altre canzoni.

Il mio brano preferito invece è Sad Pricks, soprattutto per il suono della chitarra. Come avete lavorato a quella canzone?

Quella è una delle canzoni più vecchie che è riuscita a comparire sul disco. La suonavamo da una vita ma quando abbiamo iniziato a registrare ci siamo accorti che volevamo cambiarla, e di molto. Quindi abbiamo cambiato totalmente la melodia vocale mentre eravamo in studio, abbiamo fatto un paio di tentativi finché non abbiamo trovato la giusta formula. Probabilmente se l’avessimo registrata com’era inizialmente ora non la suoneremmo più, così invece le abbiamo dato nuova vita.

Da dove è arrivata la scelta di produrre artisticamente l’album da soli?

È qualcosa che è insito in noi, cerchiamo di avere sotto controllo tutto ciò che facciamo: non abbiamo un manager e cerchiamo di tenere tutto quanto all’interno della band. Per quanto riguarda la produzione, sapevamo cosa volevamo sentire e come doveva suonare il disco, quindi perché dovevamo farci dire da qualcun altro quello che sapevamo già? Siamo stati aiutati da qualche amico per alcune questioni tecniche, ma per quanto riguarda la produzione eravamo totalmente capaci e inoltre è stato anche più economico…

Ascoltando l’album mi è venuto in mente come possibile produttore Steve Albini. Vi piace il suo lavoro? E avete mai pensato di poter collaborare con lui in futuro?

Per ora vogliamo fare una cosa totalmente nostra, però siamo sicuramente suoi fan. Ha fatto grandissimi dischi con altre band, come i Pixies, Breeders, Nirvana. In realtà non saprei, molti hanno detto che sarebbe un bel matrimonio quello tra noi e Albini, ma non ne sono così sicuro. Forse, un giorno… (continua nella pagina successiva…)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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