sabato, Aprile 20, 2024

Pete Molinari – Theosophy: la recensione

Intriso di suoni anni ’60 fra sbracciate di tamburelli e monologhi di fisarmoniche che lo renderebbero in assoluto concorrenziale con un Bob Dylan degli anni d’oro, il giovane Pete Molinari torna a far parlare di sé con il nuovo album Theosophy. Tuttavia non è l’America divisa dal Vietnam o un mondo spettatore della guerra fredda ad ascoltare Pete Molinari; il musicista inglese si confronta con anni diversi, anni in cui il rifarsi al folk anni’60 made in USA sfugge a definizioni precise, alternando alle accuse di dipendenze modaiole, i riconoscimenti per la sincera fonte di ispirazione (basti pensare ai discorsi in merito al talentuoso quanto chiaccherato Jake Bugg). Di origini mediterranee (italiane, egiziane e maltesi) Pete ha vissuto nel Kent per trasferirsi poi a New York da dove è iniziato il suo pellegrinaggio on the road: Memphis, New Orleans, San Francisco sono solo alcune delle tappe che hanno ospitato gli spostamenti del giovane musicista lungo le strade degli States, un percorso che se da un lato ha consentito a Pete di suonare in alcuni fra i locali blues e folk più leggendari del paese, dall’altro ha assolto la funzione di macchina del tempo, trasformando in parziale realtà i sogni e le aspettative del musicista britannico. Non è difficile immaginarselo vagabondare per le lunghe highway mentre redige il suo personalissimo Bound for Glory fiutando nell’aria i racconti di speranza e libertà di Bruce Springsteen. E se quelle ispirazioni hanno avuto fortunato esito nell’album del 2008 A Virtual Landslide, ancorano soffiano e caricano i riff del quarto album; Theosophy. 13 tracce realizzate con la collaborazione di Barrie Cadogan (Primal Scream) e Dan Auerbach (Black Keys), registrato presso gli Humbug Studios sulla prestigiosa Isola di Wight. Theosophy parte in sommo stile già dall’inizio e le influenze che si possono orecchiare sono parecchie: dai racconti d’asfalto di Jack Kerouac, a Hank Williams e Woody Guthrie. Le maledizioni blues di Hang My Head In Shame e Easy Street, la fisarmonica da fiera cittadina in I Got Mine o il rock’n’roll quasi garage di Evangeline. Ogni traccia è un pezzo di storia passata, uno scorcio su un’America che non c’è più né mai ci sarà, ma rivive in modo schietto e onesto e senza artefatti nello scorrere di Theosophy. Anche quando si cimenta nelle sfumature southern, aggregando cori gospel in Mighty Son of Abraham o ballate da Mississippi di Winds of Change, Molinari mantiene le distanze degne e appropriate dai modelli originari.
Come anticipato, si potrebbe discutere a lungo se Pete Molinari rientri o meno in quella compagine di progetti costruiti ad hoc per solleticare e cavalcare la moda del momento e certamente la presenza di Dan Auerbach fra i credits dell’album contribuirà a far fuoriuscire uno stuolo di polemiche e polemizzanti di cui ogni medium è colmo, tanto più se si considera il boom degli ultimi anni dei Black Keys (se la collaborazione Auerbach/Molinari fosse avvenuta nel 2008 il mutismo sarebbe stato il miglior commento). In questa disputa, forse aiuterà accostarsi a Theosophy accantonando, perlomeno per i quaranta minuti dell’album, ogni pregiudizio di sorta e abbandonarsi senza sensi di colpa ai ricordi – genuini o meno che siano – che la chitarra di Pete saprà suscitare.

Giulia Bertuzzi
Giulia Bertuzzi
Giulia vede la luce (al neon) tra le corsie dell'ospedale di Brescia. Studia in città nebbiose, cambia case, letti e comuni. Si laurea, diventa giornalista pubblicista. Da sempre macina chilometri per i concerti e guadagna spesso la prima fila.

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