venerdì, Marzo 29, 2024

Sufjan Stevens – Carrie & Lowell: il vuoto di Dio è Dio medesimo

Nell’intervista concessa recentemente a Pitchfork, Sufjan Stevens racconta con grande trasparenza le ragioni che lo hanno condotto a pubblicare Carrie & Lowell; più che al percorso di elaborazione di un lutto, ci è sembrato che le parole del musicista americano si avvicinassero al lavoro fatto sui testi dell’album, in quella coesistenza tra chiarezza e contemplazione, onestà e apertura del possibile.
La storia personale di Stevens non parla quindi di redenzione, ma soppesa il vuoto della perdita e la pienezza di significato a cui questo conduce, in egual misura, senza mettere in contrasto questi due elementi in una prospettiva risolutiva, o banalmente dialettica, ma muovendoli all’interno di una trasfigurazione reciproca.

Il primo segnale di questa contemplazione del vuoto arriva attraverso un’affermazione precisa e molto rara, sopratutto dalle nostre parti, dove persiste la pantomima di quella simbiosi ottocentesca tra arte e vita, quasi si potesse ancora identificare, complice la distorsione verticale e verticistica dei social media, uno spazio mitico e cultuale in un contesto in cui il mercato è ormai ridotto ad un desco per cannibali.
Stevens lo dice chiaramente: “Non c’è nessun grado di artisticità [n.d.a. in Carrie & Lowell], e questa è una cosa positiva. Non è un progetto artistico, questa è la mia vita

Mentre Bowie, si sbarazza di se stesso con il trucco (abilissimo) del defacement, quindi in qualche modo identificandosi, seppur en abyme, sempre e comunque con un simulacro d’arte, Stevens scopre se stesso sospeso nel vuoto, togliendo prima di tutto la veste concettuale di alcuni suoi progetti, per parlare di un’appartenenza che si è delineata attraverso la distanza e lo sradicamento.

Al di la di qualsiasi legittimità politica che ci induca a difendere i confini identitari di un’esistenza individuale o comunitaria, la ricerca di Stevens fa tremare i polsi, da qualsiasi punto di vista la si osservi, perché entra nello specchio della propria morte senza alcun tipo di scorciatoia simbolica.

Carrie si allontana dalla famiglia quando Stevens ha solamente un anno; colpita dalla depressione, dalla schizofrenia e dalla dipendenza dall’alcool, manterrà una relazione a distanza con il figlio, ad eccezione di alcune vacanze estive passate insieme a lui e al patrigno Lowell Brams, figura sempre presente nella vita del musicista americano e co-fondatore della Asthmatic Kitty.

La perdita di Carrie, avvenuta nel 2012 a causa di un cancro allo stomaco, influisce duramente sulla vita di Stevens, con un tracollo di cui parla anche attraverso i testi dell’album, e che descrivono questa contemplazione del vuoto come una difficile ricerca spirituale; distanza con cui Stevens ha sempre avuto a che fare, dovendosi immaginare un rapporto basato sull’assenza.

Se quindi i momenti vissuti con lei si perdono nella memoria di un numero ridotto di eventi, dove il “racconto” completa la mancanza con l’immaginazione, la visita alla madre sul letto di morte spinge Stevens a ricombinare questi elementi e ad affrontare il vuoto da una diversa prospettiva, perché il dolore e il desiderio di amare, devono fare i conti con il niente: vuoto di ricordi condivisi, vuoto di immagini, vuoto di storia, vuoto di momenti vissuti.

Ci sono venute in mente alcune parole di Simone Weil dalla raccolta aforistica de “L’ombra e la grazia”, quando definisce la contemplazione dell’essenza divina a partire dal vuoto: “Questo mondo, in quanto totalmente vuoto di Dio, è Dio medesimo. La necessità, in quanto assolutamente altro dal bene, è il bene medesimo

Una visione non così lontana dalla dimensione di ascolto delle Upanishad, e che Stevens sembra recuperare attraverso il suo percorso, introducendo l’album con “Death with dignity” dove canta “Spirit of my silence I can hear you | But I’m afraid to be near you | And I don’t know where to begin“, una relazione con il vuoto che risuona con le parole della Weil e che prosegue individuando la stessa immagine del deserto; nel brano di Stevens: “Somewhere in the desert there’s a forest | And an acre before us | But I don’t know where to begin” e attraverso le parole della filosofa e mistica francese: “Quando lo si raggiunge si è al sicuro. « Nell’Oriente deserto… » Bisogna essere in un deserto. Perché colui che dobbiamo amare è assente

Il Cristianesimo di Stevens, come quello della Weil, è  privo di forma, “amorfo” ha detto il musicista americano a Pitchfork, e in “Carrie & Lowell” si manifesta attraverso un progressivo allontanamento dai riferimenti della scrittura biblica e da quelli mitologici (Aronne, Elia, la divinità ancestrale di Erebo) per toccare la sofferenza più scoperta e cruda, quella di un’aderenza autodistruttiva con l’immagine della morte “Jesus I need you, be near, come shield me | From fossils that fall on my head | There’s only a shadow of me; in a manner of speaking, I’m dead” oppure della disperata ricerca di una similarità che si traduce nella consolazione dell’infelicità: “Drag me to hell | In the valley of The Dalles | Like my mother [….]  I’ll drive that stake through the center of my heart | Lonely vampire | Inhaling its fire | I’m chasing the dragon too far“.

Stevens entra ed esce da uno stato all’altro, si copre con il suo stesso sangue e chiede una risposta all’atto del comporre: “What’s the point of singing songs | If they’ll never even hear you?“,  interrogando la propria fede e il valore positivo del nucleo famigliare: “The man who taught me to swim, he couldn’t quite say my first name | Like a father he led community water on my head | And he called me “Subaru” | And now I want to be near you” ma allo stesso tempo non visualizza un confine preciso oppure ascensionale individuando un’immagine univoca e salvifica, anche perché la collocazione dei brani non sembra necessariamente seguire la cronologia degli eventi, quanto una dimensione sincronica, dove il divenire è sganciato da una prospettiva evolutiva, e ce lo dice attraverso un brano come “All Of Me Wants All Of You” dove ritorna il paesaggio dell’Oregon, il luogo che accoglieva gli incontri sporadici tra Sufjan e Carrie, e che Stevens osserva dalle alture dello Spencer Butte con l’orizzonte vuoto che cambia il suo punto di vista, contemplazione del paesaggio come liberazione nel vuoto.

La rivelazione diventa allora reale quando il pensiero di Carrie svanisce: “Revelation may come true | Now all of me thinks less of you | (All of me wants all of you)

Ancora Simone Weil: “Non lasciarti imprigionare da nessun affetto. Preserva la tua solitudine. Il giorno, se mai esso verrà, in cui ti fosse dato un vero affetto, non ci sarebbe opposizione fra la solitudine intima e l’amicizia; anzi tu potrai riconoscerla proprio a quel segno infallibile.”

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker, un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana e un Critico Cinematografico iscritto a SNCCI. Si occupa da anni di formazione e content management. È un esperto di storia del videoclip e del mondo Podcast, che ha affrontato in varie forme e format. Scrive anche di musica e colonne sonore. Ha pubblicato volumi su cinema e new media.

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