venerdì, Marzo 29, 2024

The Boxer Rebellion, le vite di una band: l’intervista @ Indie-Eye

I fan italiani dei Boxer Rebellion hanno dovuto attendere a lungo prima di tornare a vedere i loro beniamini in azione sui palchi della penisola: erano infatti sette anni, da un tour di supporto agli Editors, che la band capitanata da Nathan Nicholson non suonava da queste parti. Attesa ripagata da un gran bel concerto, quello tenuto alla Salumeria della Musica di Milano lo scorso 30 ottobre davanti a un pubblico abbastanza numeroso e sicuramente caloroso, pronto a cantare a memoria tutti i successi sfornati dal quartetto lungo una carriera che ha ormai superato la decade e a sostenere la band in questo periodo particolare, che fa seguito all’abbandono del chitarrista storico Todd Howe, sostituito da Andrew Smith. Prima del live abbiamo incontrato Nathan e il batterista Piers Hewitt, per farci raccontare un po’ la lunga strada che li ha portati a ri-incrociare dopo anni i fan italiani. Ecco cosa ci hanno detto.

Sono passati sette anni dal vostro ultimo concerto in Italia. Cosa vi ha tenuto lontani dal nostro paese e cosa ci siamo persi in questi anni?
N: beh, abbiamo fatto uscire tre dischi in questi anni, quindi è tutto lì quello che vi siete persi. Siamo stati lontani perché non c’era nessuno che ci chiamasse qui, a volte provavamo ad inserire una data ma non ci siamo riusciti. A ripensarci è incredibile come vola il tempo, sette anni sono passati davvero veloci, anche perché comunque sono stato in Italia per altri motivi un paio di volte, quindi non mi sembra di essere stato lontano dall’Italia per anni.
P: noi siamo una band indipendente, quindi non abbiamo la possibilità, come invece accade a gruppi sotto major, di stare in tour per dodici mesi consecutivi senza pensare ad altro. Noi vorremmo andare ovunque, ma dobbiamo pensare al nostro lavoro in modo un po’ diverso, quindi dobbiamo anche limitare un po’ i periodi in cui siamo in tour e quindi anche i luoghi dove suonare, per avere modo di dedicarci anche al resto. Per una band del nostro livello i periodi giusti per suonare sono la primavera o l’autunno, con in più i festival durante l’estate, quindi dobbiamo alternare quei periodi ad altri in cui lavoriamo sui dischi o facciamo altro. Tutto questo per dire che non siamo stati intenzionalmente lontani dall’Italia per tutti questi anni, è successo ma non per disinteresse verso il pubblico italiano.

Quindi cosa dobbiamo aspettarci dal concerto?
N: abbiamo fatto quattro dischi, quindi una sorta di greatest hits, le nostre canzoni più conosciute.
P: stiamo portando in tour Promises da un anno e mezzo ormai, sarà l’ultimo spezzone di date dedicate a quel disco. Quindi credo che inseriremo qualche pezzo in più dai dischi precedenti.
N: ormai abbiamo più di cinquanta canzoni tra cui scegliere, quindi non è un problema fare una scaletta interessante sia per noi che per il pubblico. A volte ripenso a quando è uscito il primo disco e avevamo solo quelle canzoni da suonare, mentre ora dovremmo fare concerti di più di tre ore per suonare tutto il repertorio!
P: parlavamo di questo pochi giorni fa con una band inglese, i Royal Blood. Loro sono usciti con il loro disco ad agosto e hanno già suonato da headliner alla Brixton Academy a Londra, che è un posto dove ci stanno anche 5000 persone come pubblico. Tra l’altro il disco dura circa mezz’ora, quindi non riesco quasi ad immaginare come possano fare un concerto che duri almeno un’ora! Per fortuna non abbiamo più questo tipo di problemi…

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Sempre a proposito di concerti, pochi mesi fa avete fatto uscire Live At The Forum, che è il vostro terzo disco dal vivo dopo iTunes Live From London e Live In Tennessee. Qual è quindi il ruolo dei dischi live all’interno della vostra discografia?
N: per quanto riguarda Live At The Forum, penso che sia molto importante, perché è stato l’ultimo concerto che abbiamo fatto con Todd, il nostro chitarrista, quindi è una specie di canto del cigno per lui e per noi con quella formazione. In generale li facciamo per i fan, perché hanno dimostrato di apprezzarli molto, quindi curiamo molto il suono, vogliamo che suoni al meglio possibile, e curiamo anche il packaging e tutti i dettagli. Anche se, per quel che mi riguarda, l’unica cosa che sento è quanto canto male! Comunque devo dire che mi piace molto Live At The Forum.

Pensate che sia meglio di Live In Tennessee?
N: penso che siano molto diversi. Quando abbiamo registrato Live In Tennessee suonavamo davanti a circa trecento persone, mentre al Forum ce n’erano duemila, quindi già questo fa una certa differenza.

E qual è il brano che preferite suonare dal vivo?
P: Diamonds, che è stato il primo singolo dall’ultimo disco. Ci sono diverse canzoni, che per svariati motivi, non sempre ci danno soddisfazione, mentre Diamonds riesce sempre bene, riusciamo a dare qualcosa in più ogni volta che la suoniamo.

Credo che diate anche molta importanza ai singoli, fin dall’inizio della vostra carriera. Quando scrivete un brano lo vedete come un futuro singolo o considerate invece il fatto che sarà parte di un album?
P: solitamente non scriviamo avendo come obiettivo il singolo, però a volte capita che un po’ ci si pensi, per esempio nell’ultimo disco, ma ci si sbaglia spesso lavorando in quel modo. Per esempio non pensavamo che Diamonds potesse diventare il singolo di lancio e invece è diventato il miglior singolo che abbiamo mai realizzato. È difficile capire quale brano possa andare bene per la radio, o anche per i passaggi in TV o all’interno di film. Comunque non ci pensiamo troppo, anche perché diventerebbe veramente difficile lavorare con l’ossessione di scrivere per forza singoli su singoli.

Sempre parlando di singoli, ho sentito la bella versione acustica di Always che avete fatto uscire poche settimane fa. È quello il modo in cui scrivete le canzoni, chitarra e voce?
N: lo era, nascevano spesso da idee che ci venivano in situazioni del genere. Ora nascono in modo abbastanza diverso, da un loop o da un suono di tastiera. Oggi tendiamo a registrare le idee che ci vengono alla tastiera e da lì poi iniziamo a lavorare, fino a trovare l’arrangiamento che ci convince di più, ascoltando e riascoltando il pezzo. Quella versione di Always fa capire il bello di avere Andrew nel gruppo, lui è un cantautore ed un ottimo chitarrista acustico, e a volte serve qualcuno che cambi le cose e la forma delle canzoni.

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Quindi fate qualcosa acustico anche durante i concerti?
N: no, in passato ci abbiamo provato, ma non siamo mai stati troppo convinti del risultato, tendeva a raffreddare l’atmosfera
P: oltre a questo non sarebbe molto adatto a rendere al meglio le canzoni, soprattutto quelle che scriviamo nel modo descritto poco fa. C’è una grande collaborazione tra di noi, ogni parte è molto importante per la buona riuscita dei brani, quindi è giusto che le canzoni siano suonate da tutti quanti per rendere appieno il suono che devono avere.

Avete sperimentato molto con la distribuzione digitale dei vostri dischi durante la vostra carriera, togliendovi anche diverse soddisfazioni. Ripensando al passato, rifareste tutto nello stesso modo? O cambiereste qualcosa? E cosa pensate del mercato musicale oggi?
N: non credo che cambieremmo qualcosa, e comunque ha poco senso chiederselo, dato che ormai è passato. Per quanto riguarda il mercato, penso che il vinile e anche il CD siano ormai destinati a diventare sempre più materiale per collezionisti.
P: penso che ogni volta che abbiamo fatto uscire un album la situazione fosse molto diversa: per il primo disco l’etichetta stampò settantamila copie da distribuire in tutto il mondo, mentre per il secondo ne vendemmo online più o meno la stessa cifra in una settimana. Ora invece abbiamo questa situazione molto varia, che è cambiata soprattutto negli ultimi due-tre anni, con l’esplosione dello streaming, che è andato ad affiancarsi ai mezzi tradizionali e anche a quelli che sembravano già moderni. Quello che un musicista deve fare è muoversi in parallelo a queste evoluzioni.
N: per esempio alcuni non sono molto soddisfatti di come viene gestito lo streaming, però credo che sia comunque un buon modo per diffondere la propria musica. Probabilmente si hanno meno entrate così rispetto alla vendita di dischi, ma si possono trovare altri metodi per rifarsi. La cosa importante è che ci sia qualcuno che ti ascolti, anche su un servizio di streaming, e che possa diventare tuo fan e trovare altri modi per sostenerti, venendo ai concerti o con il merchandising ad esempio.

Nathan viene dagli Stati Uniti, mentre Andrew, Adam e Piers sono inglesi e Todd era australiano. Queste differenti origini che impatto hanno avuto sul vostro suono? Ve lo chiedo perché spesso venite definiti semplicemente come una band britannica, ma secondo me c’è anche altro nel vostro suono…
N: negli anni novanta ero molto preso dal britpop e dalla scena baggy, gli Stone Roses per esempio, e poi naturalmente i Radiohead e i Verve. Quindi sono quelle le maggiori influenze che ho e le radici di quello che faccio, ed era lo stesso anche per Todd.
P: non penso che i nostri luoghi d’origine abbiano così importanza sulla musica che scriviamo. Quello che senti di “non-britannico” è probabilmente la nostra ricerca sul suono, il nostro tentativo di fare qualcosa di nostro meno legato alle nostre influenze, che comunque ci sono e hanno delle origini abbastanza precise.
N: sì, abbiamo cercato di trovare un nostro suono, seguendo anche quello che hanno fatto band come gli Interpol, ad esempio.

Chiudiamo con una domanda classica: quali dischi portereste su un’isola deserta?
N: Ok Computer dei Radiohead, The Joshua Tree degli U2, il White Album dei Beatles e un greatest hits dei Queen.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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