venerdì, Aprile 19, 2024

Blue Willa: La disciplina dell’irrazionale

Il disco d’esordio dei Blue Willa (che esce oggi 21 gennaio 2013 per Trovarobato/A Buzz Supreme, primo formale ma terzo sostanziale, dopo i due precedenti a firma Baby Blue) può inserirsi tranquillamente in quella che è considerata contaminazione, che è genere di per sé inesistente, ma anche forse quello più abbracciato dai musicisti pop in ambito contemporaneo. Altra cosa è, però, affrontarlo con uno spirito ed una sensibilità in qualche modo preesistenti ed anteriori ad un approccio meramente formale.
Il quartetto pratese, dopo due anni dall’uscita di We Don’t Know, sceglie per l’occasione la guida di Carla Bozulich, personaggio che è poco dire fuori dagli schemi, e centra finalmente il capolavoro.
È un disco oscuro e non facile, questo omonimo esordio, capace di reinventare in modo assolutamente personale alcuni decenni di materia rock, sposandoli a suggestioni arcaiche e ad incursioni in una materia sonora puramente ambientale, senza minare la comunicatività dei brani, nella quale la linearità delle melodie fungono da appiglio al “razionale”.
La voce della Altavilla attraversa senza sosta un ventaglio e sfumature interpretative stupefacenti, da sospiri quasi soffocati (Vent) a rauche emissioni a mezza voce (Rabbits), da sfuriate di autentico screaming (Good Glue e Cruel Chain) a squilli da soprano autentico (i contrappunti di Tambourine); e perfetto è il connubio, quasi sempre all’ottava, con il timbro di Maddaleno per il quale la mancanza di intonazione non è mai errore tecnico ma scelta espressiva di assoluta coerenza.
Anche la sua chitarra va a servire l’impalcatura del pezzo, meno mordente che in passato, più lavorata e contenuta, mentre la sezione ritmica si avvale del solido Maffucci e di un essenzialissimo Ridolfo, fondamentale nel “fare a pezzi” il brano: i suoi interventi, costituiti per lo più da singoli colpi cadenzatissimi (Rabbits), piccoli incisi o da improvvise deviazioni anche fuori ritmo (la “franata” di un pezzo geniale come Tambourine), si liberano così da qualsiasi funzione di puro accompagnamento ritmico.
Il lato A, autenticamente sconvolgente, vede convivere di tutto, una Nancy Sinatra in veste lirica, Animal Collective in formato hardcore, un saltarello à la Tom Waits che degenera prima in free-form e poi in rockabilly e una ninna nanna narcolettica che Syd Barrett vorrebbe aver scritto lui stesso.
Il lato B, introdotto da due minuti di tempesta da far invidia ai Dead Kennedys, è più accessibile ma solo apparentemente più pacificato, nel suo rimandare al recente passato blueseggiante dei Baby Blue (Rabbits e Cruel Chain), giacché ancora maggior rilievo qui assumono gli interventi della Bozulich: droni di fondo insinuanti, oscuri rumori ambientali dalle suggestioni primordiali (protagonisti in Eyes Attention) che sfociano nella chiusura acquatica di Spider.
Lontanissimo da qualsiasi genere immediatamente riconoscibile e da qualsiasi moda, viscerale, istintuale ma ferreo nel suo procedere anarchico, Blue Willa è un disco dal coraggio ammirevole e, a suo modo, rivoluzionario. Non “inventa” nulla, ma non assomiglia a nient’altro.

In occasione della presentazione del disco, l’11 gennaio al Controsenso di Prato, abbiamo incontrato Mirko Maddaleno, Serena Altavilla, Lorenzo Maffucci, Graziano Ridolfo…

[Foto di Bianca Greco]

Cos’erano i Baby Blue visti da fan e cosa sono i Blue Willa ora che ci suoni insieme?

L.M.: Io ero un fan dei Baby Blue, sfegatato al punto da imporre ai miei amici di andare a vederli praticamente ogni settimana, sino a quando Mirko ebbe l’idea di chiamarmi in piena notte per sostituire Duccio Burberi, che aveva abbandonato il gruppo. C’era sempre stato qualcosa di “calamitico” in loro che mi faceva scattare una scintilla.

Il cambio di nome ha significato anche cambio di sensibilità musicale per voi?

M.M.: non ci siamo mai posti il problema di cosa fare musicalmente, di quale suono avere, tutto è rimasto sempre “sottinteso”. Negli ultimi tempi abbiamo ascoltato varie cose, tipo i nostri soliti amati Father Murphy, che davvero adesso sono la band che sta facendo la cosa giusta (L.M.), con il coraggio di sbranare alcune certezze degli ascolti italici (S.A.). Oltre a ciò, abbiamo assaggiato anche altra musica sperimentale, perciò ritenevamo che il nostro processo di creazione poteva essere più libero, certamente meno ancorato al nostro tempo.

Pertanto, quanto c’è di istinto e di coraggio nel vostro processo creativo e quanto di pianificazione meramente razionale nell’avvicinamento a territori più ostici?

L.M.: avendo già degli “scheletri” di canzone, quello che è rimasto più nella sfera del razionale è stato interrogarsi sul dettaglio, ossia il momento in cui si giungeva a definire un suono, un particolare, che è stata poi anche la parte più logorante. E in questo processo la Carla (tutti la chiamano così, come se fosse una vecchia amica, e probabilmente lo è davvero) ci ha ulteriormente scardinato.

M.M.: sai, forse alla fine era solo questione di “prendersela con un po’ più di calma” per risolvere quelle piccolezze.

In questo senso la scelta della Bozulich, per la sua importanza nella musica realmente anticonvenzionale e “alternativa”, come vi è venuta in mente? Ed è stata per voi più una guida o una vostra compagna di viaggio in questa ricerca irrazionale?

S.A.: principalmente avevamo l’idea semplicemente di farci produrre, poi abbiamo incontrato la Carla ad un concerto qui vicino, ad Agliana, quattro anni dopo aver suonato con lei a Firenze. Lei immediatamente ci ha chiesto il disco nuovo e noi ci siamo rimasti di sasso! Cinque minuti dopo ci ha chiesto quando volevamo iniziare a registrare insieme. La sua spinta ci ha guidato ancor prima di iniziare a registrare ma poi è stata nostra compagna in questo processo.

Per quanto riguarda questa continua ricerca, è per questo che la sezione ritmica cerca di destabilizzare continuamente i brani, quasi che voglia “viverli” irrequietamente?

G.R.: certamente il marcare certi accenti o la forte sottolineatura di alcuni passaggi rivestono questa funzione, anche il suono della ritmica è diverso rispetto al passato, lavorando molto sul suono dei timpani, che doveva essere più importante rispetto al suono dei Baby Blue

La mia impressione è stata che più che suonare abbiate lavorato “recitando un ruolo” ed improvvisando su un canovaccio abbozzato.

M.M.: in effetti, riascoltando il disco appena finito, ci siamo resi conto che, dal punto di vista armonico, i pezzi consistono in pochissimi accordi, per la maggior parte, che però sembrano tantissimi.

Un pezzo come Tambourine, ad esempio, unisce ad un unico accordo moltissime scale nella linea vocale di Serena.

L.M.: quando ascoltavo i Baby Blue all’inizio, quello che mi è sempre piaciuto è stata proprio la “parsimonia armonica” e perciò è ancor più forte l’intervento di un elemento melodico o armonico nuovo. Poi è inevitabile che, almeno io, non avendo alcuna dote tecnica da bassista e suonando in maniera completamente diversa da Duccio (Duccio Burberi, il vecchio bassista dei Baby Blue, nda), ho dovuto affidarmi esclusivamente all’istinto.

A che punto erano i pezzi quando Carla Bozulich ha iniziato a lavorarci?

M.M.: avevamo già dei provini registrati e poi abbiamo inviato altro materiale registrato dal vivo un po’ alla buona. Lei ci ha detto, in particolare, che mancavano un po’ di frequenze altissime.

S.A.: però su una cosa non è intervenuta quasi per nulla, sulle linee melodiche. Mi ha chiesto solo in qualche momento di spingere più in alto.

Quanto c’è di arcaico e primordiale in questo lavoro, dato che vi siete spinti in un territorio che potremmo definire l’esatto contrario dell’”Età della Ragione”, per così dire?

M.M.: è tutto primordiale! Non c’è quasi armonia e soprattutto la Carla non è intervenuta sul nucleo del pezzo, ma anzi lo ha solidificato nelle proprie radici ancora di più. Era intenzione di tutti evitare di rifiorirli perché sarebbero risultati snaturati.

La tua chitarra stessa, Mirko, “morde” comunque molto meno rispetto ai lavori precedenti, è meno presente. Che tipo di trattamento sonoro ha subìto?

M.M.: innanzi tutto, ho suonato molto meno, anche perché ciò aiutava a rendere anche i brani più liberi nel loro svolgimento. Ci concentravamo più su un colore che non sulle note vere e proprie da eseguire. La Carla è stata molto fantasiosa nel processo di sovraincisioni, anche se nel 90% dei casi andava bene la nostra prima take.

G.R.: e devo dire che ci ha anche spiazzato molto, perché durante le registrazioni non ci siamo imposti un vero metodo di lavoro, tanto che i primi due giorni erano un po’ un navigare alla cieca.

S.A.: davvero, un disastro! Registravamo ad orari folli, la Carla aveva ancora il fuso orario americano e di notte si trovava benissimo a registrare mentre alcuni di noi dormivano.

Ci sono conigli, pesci, uccelli, ragni. Come mai? Avete un’”animalità” insita in voi?

L.M.: è un’“animalinità” perché sono animali piccolini! Comunque sì, forse in noi regna una piccola bestialità. Anche nell’artwork della copertina si nota quest’aspetto.

G.R.: è un disco effettivamente più animalesco. E di animali, andando in giro per l’Europa a suonare, ne abbiamo incontrati tanti!

Avete girato in Repubblica Ceca, Croazia, Serbia, Germania. Il punto più alto e il punto più basso di quest’esperienza.

S.A.: la Repubblica Ceca, senza dubbio, il punto più alto. Un paese realmente hardecore, noi qua certe volte siamo davvero troppo viziati, lì c’è uno spazio e della corrente elettrica? Bene, si monta e si suona, a loro non gliene frega niente.

M.M.: l’Europa dell’Est è tutta magnifica. Stancante attraversarla, con tappe sino a 12 ore, ma entusiasmante. La traversata Berlino-Thiene, in particolare, lì, credo, abbiamo davvero toccato il fondo, dal punto di vista fisico, intendo.

Per un gruppo doppiamente coraggioso nel panorama nazionale (cantate in inglese e con un linguaggio musicale piuttosto estremo), c’è un bisogno di sembrare esteri o comunque tenete alla vostra italianità o toscanità?

S.A.: quando andiamo all’estero, in realtà, veniamo riconosciuti come italiani, non in senso negativo, per fortuna, quindi c’è poco da mascherarsi e, anzi, ci teniamo molto.

L.M.: fino a un certo punto, poi, un gruppo cerca di avere delle idee musicali che si svincolino dall’appartenenza “territoriale”, però ci possono essere mille ragioni per cui poi non si ha l’occasione di ridurre le distanze sia geografiche sia di “affinità intellettuale” con chi ti ascolta.

E’ noto che avete un grande amore per il cinema. Ma qui c’è il teatro in maggior misura rispetto al cinema?

L.M.: cinema ce n’è a fiumi, per varie ragioni, in primis perché la scelta del nostro nome nuovo deriva da La morte corre sul fiume (L’unica regia, accreditata, a Charles Laughton, The Night of the hunter è un film del 1955 tratto dal primo romanzo di Davis Grubb pubblicato due anni prima; Willa Harper è la madre del piccolo John Harper, interpretata nella versione cinematografica da Shelley Winters e un possibile riferimento a “Blue” è ben presente nel romanzo di Grubb; “the blue men”, attraverso lo sguardo vigile di John, sono gli uomini che portano via il padre Ben, ovvero le forze dell’ordine: “Now, from the corner of his eye, Ben sees the blue men with the guns in the big touring car coming down the road beyond the corner of the orchard.”N.D.R.)

M.M.: ci sono molte cose che abbiamo imparato dall’uno e dall’altro, soprattutto Serena. Ma la questione del teatro è più afferente all’aspetto espressionistico della performance.

Però, proprio per la limpidezza delle melodie, la vostra musica risulta comunque emotivamente immediata. Dipende anche da una tua nuova vocalità, se c’è?

S.A.: io penso di essere cambiata nel coraggio di cantare e di trasmettere la mia voce anche agli altri.

M.M.: e poi Serena ha partecipato molto di più alla scrittura, alcuni brani li ha composti direttamente lei.

Si nota comunque un’enorme urgenza espressiva in questo disco. Con questo ventaglio di soluzioni già raggiunto in questo lavoro, quali strade pensate vi si possano aprire per il futuro?

M.M.: non ne abbiamo parlato, ma vedo davvero tantissime possibilità, anche se tornare al melodico e al pulito, tra virgolette, sarà difficile.

S.A.: e ora c’è il tour, sarà bello vedere come, di volta in volta, i brani prenderanno diverse vite sul palco.

Per l’appunto, la performance dal vivo è stata sempre il punto di forza sia dei “vecchi” Baby Blue che degli attuali Blue Willa e i nuovi brani si prestano, se possibile, ancor di più ad una band dall’impatto scenico potentissimo. 11 Gennaio 2013, serata  di presentazione dell’album, attaccano in un “Controsenso” già colmo ed eseguono il disco per intero, riversando sul piatto quanto di buono già si annusava nell’aria, forti anche di un’esperienza live che raggiungerà i dieci anni fra non molto.
La compattezza era forse il terreno più bisognoso di verifica, dato che il nuovo concerto punta molto di più sull’interazione fra pause e accelerazioni e sull’incessante scarto di dinamiche.
Ridolfo si conferma un batterista straordinario, minimalista sino all’eccesso, ma quando entra nel pezzo è lui l’elemento di rottura, curando poi maniacalmente ogni sfumatura e colore delle proprie pelli; e Maffucci, bassista sicuramente più tondo di Burberi (che tecnicamente lo sopravanzava), piega sapientemente il proprio approccio punk a decise sfumature soprattutto nelle ballad.
Tutti i brani, sono fondamentalmente invariati (del resto, gli “scheletri” del disco sono gli stessi…) ma suonano ancora più scarni, dando modo comunque a ciascuno dei musicisti di agire con maggior libertà, soprattutto nelle digressioni di Tambourine e Vent.
Maddaleno sta fin troppo in disparte, contenuto nell’uso delle distorsioni, ma tanto più ficcante nei contrappunti e nello stoppato che lo avvicina a Marc Ribot. In tutto ciò, ha una vocalità davvero selvaggia: consapevole che cantante non è (ma non ha rilevanza alcuna), è talmente coinvolto che la sua performance è ancor più toccante.
Chi invece cantante lo è, è la splendida Altavilla. Già detto del timbro multiforme, tanto cristallino quanto ruggente, la sua prova è un mix ammaliante di sensualità, fragilità e cattiveria animalesca, lontanissima sia dal desiderio di ingraziarsi il pubblico, tant’è che canta per metà del tempo di spalle, che dalla tentazione di fagocitare gli altri compagni.
Nonostante l’acustica così e così, tutto bene, sino a quando uno sconcertante gruppo di imbecilli, per i quali sarebbe sacrosanta una specie di DASPO per tutti i locali pubblici, inizia ad irridere proprio la vocalist, la quale non si fa pregare due volte e li manda prima “cortesemente” a quel paese, successivamente ingaggia una guerra privata tanto da cantare una Cruel Chain direttamente rivolta a loro con una sguaiataggine e una sfrontatezza da lasciare atterriti: quel che si potrebbe dire non tanto “rispondere per le rime”, quanto “con le rime”, assolutamente geniale.
Da lì in poi, la situazione in sala diventa incontrollabile e il fascino del concerto svanisce, perché di fatto i pianissimo diventano inudibili. Solo la mitragliata finale di Good Glue fa calare il sipario su un concerto che richiede allo spettatore sicuramente maggior attenzione, ma che ripaga il triplo di quanto “investito”, a conferma della grandezza di una band dalle armi potenzialmente infinite.

Foto di Bianca Greco

 

 

 Setlist:

Birds | Tambourine | Eyes Attention | Moquette | Fishes | Moan | Cruel Chain | Spider | Rabbits | Vent | Good Glue

Album tracklist:

Eyes Attention | Fishes | Tambourine | Moquette | Vent | Good Glue | Rabbits | Birds | Moan |  Cruel Chain | Spider


Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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