giovedì, Marzo 28, 2024

Amor Fou – su “i moralisti”, la foto-intervista

Fotografie di Alice DeMontis //

Gli Amor Fou sono uno dei progetti più ambiziosi della musica italiana odierna. Il loro nuovo disco pubblicato per Emi Music si intitola “I Moralisti” e si propone di tracciare una descrizione dell’Italia degli ultimi anni, tra poesia e coscienza civile. Abbiamo parlato con il gruppo al gran completo di come è nato questo piccolo grande gioiello. Ecco cosa abbiamo scoperto.

I Moralisti” arriva a tre anni di distanza da “La stagione del cannibale”; in questi tre anni sono cambiate molte cose nel gruppo, innanzitutto la line-up, con il conseguente abbandono dei suoni elettronici. Com’è stata quindi la gestazione del disco? Cos’hanno portato di nuovo Giuliano Dottori e Paolo Perego?

Giuliano faceva già parte del gruppo come chitarrista a partire dal tour del primo album, mentre Paolo si è aggiunto all’inizio del tour che ha promosso l’EP “Filemone e Bauci”. Sicuramente hanno portato la compattezza che ci è sempre mancata, nel senso che fin da subito io e Leziero abbiamo voluto intendere questo progetto come una band vera e propria, che condivideva un po’ tutto nel fare musica, e che quindi poi risultasse compatta nel suonare dal vivo piuttosto che nel registrare e nel produrre la propria musica. Ci siamo riusciti in quest’ultima fase, nel momento in cui siamo andati ad approcciare la produzione di quest’ultimo disco. Devo dire che i cambiamenti principali che si sentono credo siano di attitudine; il disco nelle nostre intenzioni doveva suonare come il lavoro di una band che l’aveva scritto, suonato, arrangiato in modo fluido, rispetto al primo, che resta un buonissimo prodotto, però è più “prodotto”, risulta sicuramente più costruito e probabilmente anche meno viscerale. La visceralità era invece già presente nello spirito del progetto dall’inizio.

Il disco esce per la EMI, che vi ha scritturato “in extremis”, quando sembrava dovesse essere La Tempesta a curare l’uscita. Come è avvenuto il contatto con la nuova etichetta?

Il contatto in realtà c’è stato un po’ da sempre, nel senso che Leziero aveva già collaborato con persone di questa struttura in passato e comunque, almeno a Milano, il nostro progetto era già conosciuto, almeno tra gli addetti ai lavori; per cui un occhio c’è sempre stato, anche se magari in modo più defilato. Nel momento in cui abbiamo annunciato il disco c’è stata una richiesta specifica da parte della EMI di ascoltarlo e immediatamente è arrivata la proposta, per cui probabilmente è stata una scintilla, un amore a prima vista. Visti i tempi di una major, è abbastanza raro che ci voglia così poco. Vorrei sottolineare che noi non l’avevamo nemmeno proposto alle major questo disco, nel senso che per la forma, i contenuti e il taglio che aveva pensavamo dovesse fare ancora un suo percorso, sia il disco che il progetto, per arrivare a quello che sicuramente per noi poteva essere un approdo fisiologico. I tempi sono stati abbreviati dall’entusiasmo che c’è stato per il disco da parte loro.

Nell’ultimo intervento sul blog della band (http://amorfou.blogspot.com/) si parla di Damon Albarn e dei Blur, dal punto di vista della descrizione della società attraverso il pop. È la stessa cosa che cercano di fare gli Amor Fou, filtrandola attraverso la storia, musicale e con la S maiuscola, italiana?

È esattamente la stessa cosa. Lì ho preso spunto da questo brano, “Fool’s Day”, e dal suo testo, che è per l’ennesima volta un ritratto molto profondo, acuto e attendibile di un lato della società inglese, fatto in modo molto leggero e conciso, per ribadire questa cosa: all’estero, non solo all’interno della canzone d’autore in senso stretto, si è riusciti a conservare questa attitudine documentaristica e anche di riflessione, e in particolare Albarn lo ha fatto benissimo in tutti i suoi progetti. Sicuramente ci sentiamo in questo molto vicini a delle realtà musicali non necessariamente italiane, anzi molto spesso straniere, che però mantengono dei forti punti in comune con quella che è stata la canzone d’autore italiana fino a pochi decenni fa, che aveva una forte componente di documentazione.

In questi ultimi anni altre band, oltre a voi, stanno cercando di risvegliare le coscienze in Italia, con modi e generi diversi da quelli codificati in passato. Penso ad esempio ai Baustelle o al Teatro degli Orrori. Come spiegate l’esigenza sentita da più gruppi di dire qualcosa sulla società in modo così forte?

La cosa che credo leghi questi gruppi è l’età di chi scrive, l’appartenenza generazionale. Penso sia una cosa fisiologica che una persona di 30-35 anni ha nella sua vita quando fa un certo tipo di percorso, e se fa musica credo sia una conseguenza abbastanza naturale. A me fa piacere che persone che vengono più o meno dalla stessa generazione e probabilmente sono cresciute nello stesso modo o vedendo le stesse cose, a un certo punto abbiano fatto la scelta, attraverso la propria musica, di dare la precedenza ad un determinato tipo di contenuto, mentre si può notare che altri progetti più recenti non presentano questa esigenza. Credo sia legato, non voglio dire a un certo tipo di educazione, però al fatto di essere cresciuti a contatto con certe realtà e di essere educati a farsi certe domande.

Dopo l’intro, il disco inizia con “De Pedis”, dal nome di un boss della Magliana. Fino ad ora gli Amor Fou sono stati soprattutto legati a Milano, nel bene e nel male. Come mai la scelta di iniziare parlando di un personaggio romano?

Perché questo disco ha sicuramente altri epicentri e Roma è una delle città di riferimento. Poi in realtà Roma era una città che aveva in qualche modo già accolto il nostro messaggio, nel senso che uno degli episodi più belli della promozione del primo disco era stato proprio a Roma in teatro, quando proponemmo un adattamento del disco in una chiave più teatrale, con delle letture di autori molto legati alla città, come Pasolini, Moravia, ecc. Inoltre il fatto che Amor Fou sia un progetto fortemente radicato alle tradizioni della cultura popolare letteraria e cinematografica ti porta, prima o poi, logicamente a confrontarti con Roma e con l’immaginario romano; per cui, al di là di “De Pedis”, c’è sicuramente un mood nel disco che si rifà magari anche al cinema neorealista, che ha in Roma il suo teatro.

Uno dei brani che colpiscono subito è “Peccatori in blue jeans”, che richiama alla mente il beat, anche se riaggiornato all’oggi, con tanto di citazione per gli amici virtuali. Come è nato questo brano? Come vi è venuta voglia di rifarvi a quell’ondata musicale degli anni ’60?

La direzione del brano probabilmente nasce da questo spunto del pianoforte, che aveva un portamento spinto. È stato interessante sviluppare la canzone in quella forma perché pensavamo fosse giusto e generoso rendere omaggio e in un certo senso affermare questi riferimenti ad alcuni gruppi italiani della fine degli anni ’60. che guardavano alla scena inglese o a quella del garage beat americano per rifare cover e standard e reinterpretarli in una nuova chiave, fino a creare nel tempo un suono italiano del beat, che ha dato anche delle cose molto interessanti.

Filemone e Bauci” era presente già nell’EP dello scorso anno. È il brano più lungo del disco, vicino agli 8 minuti; mi sembra che in quella canzone si possa trovare la summa di ciò che sono gli Amor Fou sia dal punto di vista lirico sia delle atmosfere musicali. È davvero così? Ed è per questo che il brano è messo esattamente a metà disco?

È messo a metà disco perché abbiamo cercato di creare una scaletta che funzionasse a livello musicale e di ritmo, al di là dei contenuti dei brani. E’ sicuramente vero invece che la canzone, nel suo sviluppo, nei suoi contenuti, nel suo arrangiamento è una fotografia molto attendibile; soprattutto perché è nato precedentemente al disco, ha rappresentato un po’ la svolta, il momento di passaggio tra “La stagione del cannibale” e la nuova veste. La scrittura quasi prog, lo sviluppo della canzone che poi sfocia in una coda strumentale e altri elementi erano specchio dell’esigenza di suonare e di trovare una nuova direzione, sostanzialmente.

Sull’EP, e per tornare anche a parlare di Milano, era presente “Il Ticinese”. Come mai è rimasta fuori dall’album? Eppure è una delle migliori canzoni su Milano scritte negli ultimi anni, e se ne scrivono tante…

È rimasta fuori per via di scelte discografiche. In realtà sarà comunque utilizzata come bonus track sulla versione digitale o per altre versioni. Attraverso un nostro confronto interno non eravamo riusciti a decidere se inserire anche l’EP assieme al disco piuttosto che no. In origine c’era l’idea di fare un doppio CD o di inserire le canzoni. Sia “Il ticinese” che “Filemone e Bauci” fanno già parte del concept de “I Moralisti”, nel senso che già nel momento in cui abbiamo deciso di pubblicare l’EP c’era già questa forte volontà di concentrarci su singole tipologie di persone e creare dei quadretti, delle fotografie su dei singoli personaggi. Per cui sì, c’è un’unità tra quel brano e questo disco, infatti dal vivo lo eseguiamo.

In “a.t.t.e.n.u.r.B” campionate il ministro Brunetta mentre insulta la cultura italiana. Come vi è venuto in mente di inserire quel brano nel disco?

Il brano in realtà è nato da un’improvvisazione, era uno di quei brani che sono nati in sala prove suonando, da un giro di chitarra di Giuliano. È nato molto sull’onda emotiva; quando stavamo provando per le date dello scorso anno il discorso è caduto su quello che aveva detto Brunetta. Siamo andati a risentire su Youtube quella cosa e abbiamo deciso di provare a campionarla. Abbiamo caricato il campione e così, estemporaneamente, ci siamo galvanizzati suonando. Il mood new wave e post-punk che ha preso con gli arrangiamenti è stato molto influenzato dal fatto che sentendolo al rovescio uscì questo elemento sovietico, per cui ci immaginammo questo scenario da discorso stalinista, da comizio di Stalin con in sottofondo i Joy Division, uno scenario urbano decadente. C’è stata la volontà di documentare in qualcosa che resti per sempre che in un periodo storico l’Italia ha portato a rappresentare il governo una persona che ha sparato su uno degli elementi più alti dell’italianità, che è appunto il patrimonio culturale, lirico, teatrale, e ha ricevuto degli applausi per averlo fatto.

Dolmen” affronta invece i problemi di coppia legati all’egoismo. Oggi, in questa società, è così difficile rinunciare un po’ a sé stessi per gli altri?

Da quello che si vede sicuramente c’è una grande mancanza di coesione, per cui tutti quelli che sono i vari modelli di unione, dalla coppia, alla famiglia, al lavoro, presentano delle forti problematiche, che sicuramente vengono da crisi e da debolezze individuali. In quel caso la realtà che viene rappresentata è quella di una coppia, ma a partire da una crisi individuale, che non può certo rappresentare un pilastro forte su cui costruire tutto il resto.

La chiusura del disco è affidata alla title-track, in cui una bambina recita dei versi di Sandro Penna. Perché farli recitare proprio a una bambina? E da dove arriva l’amore per Penna?

L’amore per Penna deriva dal fatto che è un poeta sublime, che, tra l’altro con un linguaggio molto semplice, molto popolare e molto conciso, ritrae l’umanità in modo veramente efficace. Quella è una poesia tratta da una raccolta di inediti, una poesia che non aveva mai pubblicato. Molte delle sue opere sono ambientate a Milano e, tra l’altro, abbiamo scoperto che c’è una delle sue poesie che si intitola proprio “I moralisti”. Il fatto di utilizzare una bambina è un modo di dare una circolarità a quelle che sono le tematiche del disco, che inizia con un personaggio che è il più negativo, ed è un personaggio adulto che nonostante ciò non è mai riuscito a distinguere il bene dal male e non è mai riuscito a mantenere completamente il controllo sulla sua vita; diciamo che rappresenta la corruzione attraverso la crescita e il raggiungimento dell’età adulta. I bambini invece in questo caso, e c’è un riferimento ai “Comizi d’amore” di Pasolini, rappresentano semplicemente un elemento intatto, di speranza e di ottimismo per tutti, non solo dal punto di vista intellettuale ma anche concreto. In qualche modo è anche un’anticipazione del fatto che il prossimo disco chiuderà un po’ il cerchio narrativo che abbiamo cominciato parlando di una situazione che avveniva a fine anni ’60, occupandosi probabilmente di giovani, di realtà generazionalmente successive a noi.

Per “La stagione del cannibale” avete girato due video. Ce ne sono in arrivo anche per questo disco?

Il primo stiamo per girarlo a Genova. Sicuramente faremo un lavoro molto intenso con l’immagine, al di là dei video istituzionali, nel senso che abbiamo sempre lavorato con registi, con videoartisti, abbiamo già scritto dei soggetti e delle sceneggiature. Tempi permettendo cercheremo di divulgare non tutta ma buona parte del disco attraverso dei video. La cosa che ci ha fatto piacere e che ci ha colpito, quando c’è stata la diffusione del disco in rete qualche settimana fa, è stata che alcuni fan si sono già creati dei video, facendo anche un lavoro paziente, con montaggi da film assolutamente ricercati.

Amor Fou su myspace

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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