giovedì, Aprile 18, 2024

LNRipley, la foto-intervista @ Indie-Eye

Nel titolo compare il blu, e in alcune canzoni, specialmente Morning Blues, c’è un sentore blues. Sono correlate queste due cose?
No, assolutamente no. Blues vuol dire triste, e quindi non ha nulla a che vedere con il colore. Bluroom è semplicemente il nome dello studio dove è nato tutto quanto e inoltre è il nome della stanza nell’Area 51 dove si dice vengano vivisezionati gli alieni. Noi ci sentiamo alieni da quel punto di vista, sempre vivisezionati, sempre sotto osservazione. Siamo sempre abbastanza giudicati, quindi era quella la connessione con la Bluroom.

Hai detto che avete cambiato il modo in cui scrivete. Da dove arriva questo cambiamento?
Come tutte le cose si evolvono, si evolve anche il modo di relazionarsi tra di noi e soprattutto di collaborare e di lavorare. Noi siamo amici, ma soprattutto siamo colleghi, siamo una band e il nostro modo di lavorare cresce insieme a noi. È stata semplicemente una crescita naturale ed il fatto che volevamo partire da pezzi individuali per poi arrivare in studio e unirli insieme. Prima era il contrario, ci beccavamo in studio e lì nasceva tutto. Qui siamo arrivati con tanto materiale fatto a casa tra di noi e poi amalgamato.

I testi sono sempre tuoi?
Sì, miei assieme a Pietro, il bassista, come nel disco precedente. Siamo io e lui che li scriviamo, alcuni testi sono completamente miei o completamente suoi, altri invece mischiati.

Voi siete stati tra i primi in Italia a inserire elementi dubstep nella vostra musica. Cosa pensate ora che quei suoni sono diventati praticamente mainstream?
Vuol dire che non sbagliavamo! Lo dico sempre: i generi musicali sono come gli attori, se hanno davvero talento arrivano a Hollywood. Il dubstep era questo, era un sub-genere con un talento e delle potenzialità enormi. Se il mondo non se ne fosse accorto era perché andava veramente in una direzione sbagliata. Ti ringrazio per averci definito pionieri, in realtà a me piaceva e basta, veniamo da quelle sonorità, tutto quello che riguarda Londra e il sud di Londra.

E dell’evoluzione che il dubstep ha subito in questi anni a livello di suono che ne pensi? Da Burial a Skrillex ci sono differenze… ti senti più legato al suono di qualche anno fa o a quello “moderno”?
Secondo me ci sono molte meno differenze di quanto uno immagina. Innanzitutto hai due vincitori di premi, uno il Mercury Prize, l’altro il Grammy, solo che uno è inglese e l’altro è americano. Quindi per me Burial e Skrillex sono esattamente la stessa cosa, tra l’altro Skrillex suona Burial nei suoi set; è che uno ha il gusto inglese, l’altro americano. È sempre stato così, la storia si ripete; se una cosa nasce in Inghilterra e poi arriva in America diventa più tamarra, per come la intendiamo noi. Skrillex ha semplicemente ingigantito quei suoni, li ha resi più metal, li ha resi più aggressivi, ma perché lui è americano, di Los Angeles, e l’ambiente in cui è cresciuto è sole, donne in pattini; Burial invece è cresciuto in mezzo alla pioggia. Però probabilmente se Burial fosse stato americano avrebbe vinto un Grammy, non a caso quest’anno ha vinto Bon Iver, e non ci allontaniamo così tanto da quelle atmosfere. Io sono contento; a molti piace parlare e dire “ha rovinato questo, ha rovinato quello”, ma proprio ultimamente ridevo con un mio amico pensando agli esordi di Jimi Hendrix, che quando è arrivato in Inghilterra in America non veniva considerato da nessuno, ha suonato la chitarra con i denti e gli ha dato fuoco ed è diventato un dio, mentre il chitarrista degli Who faceva le stesse cose, ma non era nero ed americano e non lo cagava nessuno. Anche gli Stones sono diventati gli Stones dopo la tourneè americana. Passare dagli Stati Uniti ti dà una visibilità e un risalto che probabilmente l’Inghilterra per l’underground ancora non riesce a dare. Per quanto riguarda il pop o i cantautori forse sì, vedi Adele, perché è un linguaggio molto comune. Per l’elettronica mi pare invece facciano ancora un po’ fatica. A mio parere sia Skream che Benga meriterebbero un Grammy, ma non sono americani, quindi secondo me non glielo daranno mai.

Hai detto che Burial è stato influenzato in qualche modo dalla pioggia londinese; e su di voi quella di Torino ha avuto qualche effetto?
Sicuramente per avvicinarci a quelle sonorità l’assenza del mare ha influito… però devo dire che LNRipley ha anche un’anima molto allegra e in alcuni pezzi di Bluroom si può sentire, perché eravamo anche noi consci di essere a volte troppo cupi, perché non lo siamo. Siamo comunque una band sorridente, non siamo degli incazzati col mondo e chi è venuto a un nostro concerto lo sa. Però diciamo di sì, la pioggia torinese ha avuto la sua influenza.

Verso l’estero come vi ponete? Cercate di trovare pubblico e visibilità anche lì?
Assolutamente sì. Lavoriamo tantissimo, per quanto possiamo farlo, dal web, però è una lobby. Gli anglosassoni hanno cose in mano che difficilmente vorrebbero condividere con gli altri. Noi facciamo qualcosa che magari anche altri fanno e probabilmente preferiscono tenersi quelli di casa loro. È come se da noi arrivasse dall’Uganda uno che fa neomelodico napoletano, probabilmente i napoletani sceglierebbero di tenersi i loro cantanti. So che può sembrare riduttivo il mio discorso, ma è molto più di rilievo. Queste sonorità inglesi servono agli inglesi per poter continuare a vivere. Loro vendono i dischi in Italia, vendono i dischi in Spagna, in Polonia; se loro non invadessero il Sud Europa con le loro sonorità perderebbero un sacco. L’esempio è stasera: Far Too Loud, che è un nome medio-piccolo, suona in provincia di Lecco, mentre gli LNRipley non vanno in provincia di Brighton a suonare, e questo l’industria inglese lo sa e lo dice ai propri artisti. Finché non sono i Prodigy devono rigare dritto, perché ci mangiano con il Sud Europa. Hanno creato una lobby, un’industria seria, sono tutti amici, non esistono faide per esempio tra Skream e Benga, non sono stupidi come gli americani, che però possono odiarsi tra di loro perché sono tanti e ce n’è per tutti. In Inghilterra invece non ce n’è per tutti, di conseguenza le grandi case discografiche, che secondo me influenzano molto anche le indipendenti, credo facciano questo tipo di discorsi, li farei anch’io se avessi un genere da esportare.

Qui in Italia suonate spesso in situazioni che non sono legate al 100% all’elettronica, come ad esempio qui alla Sbiellata dove siete tra i Punkreas e i Derozer. Come vi trovate in questi casi?
Abbiamo un pubblico che adoro, molto ibrido, come sono anch’io ibrido, mezzo sudafricano e mezzo lombardo. Abbiamo un po’ di pubblico che viene dal rock, perché probabilmente nei nostri primi dischi la nostra attitudine era punk e rimane punk, quella è una cosa che ha attirato i ragazzi che ascoltano la musica con le corde. Facendo dubstep e drum’n’bass abbiamo preso anche una parte di pubblico che ascolta elettronica, anche se ovviamente i puristi ci dicevano che non eravamo drum’n’bass e non eravamo dubstep. Al tempo stesso gli altri ci dicevano che non eravamo punk, ma a noi non interessava. A me va bene stare tra i Punkreas e i Derozer, essere considerato un gruppo italiano a me fa piacere. Ci dicono sempre che gli LNRipley dovrebbero essere esportati, ma noi siamo italiani, perché non può esserci un gruppo italiano ibrido, che sta nel mezzo? I Prodigy quando vanno a suonare possono stare tra gli Ac/Dc e i Chase & Status senza problemi. Io un po’ ci credo nel poter cambiare le cose, un pochino sì.

Tornando invece al disco, mi piacciono molto le atmosfere di When The Day Is Done, con il suo crescendo. Come è nato il brano?
È nato, come ti dicevo prima, piano e voce. Ci abbiamo lavorato io e Alessandro, il tastierista/pianista. Una curiosità che posso dirti è che la strofa era il ritornello e il ritornello era la strofa, poi un’intuizione di Ale, che è anche produttore, ci ha fatto switchare le due parti ed è uscito quel crescendo che si sente adesso.

Invece Out Of Mind ha delle influenze J-Pop. Cosa vi ha colpito di quell genere?
La moglie di Pietro è giapponese, lui è stato in Giappone più di dieci volte e lei ascolta quasi solo J-Pop, quindi sono suoni che non dico siano di casa, ma quasi. All’inizio ci scherzavamo su, poi abbiamo visto il live di un ologramma, una specie di Sailor Moon che canta e che riempie gli stadi. Un giorno abbiamo detto ad Alessandro di provare a fare una scala orientale, che potesse ricordare l’Oriente. È la mia voce in realtà nel brano, poi è stata riprocessata ed è diventata così, il gancio della canzone.

The Call invece è partita da un sample di Sophie Ellis-Bextor…
Marcello è molto fan di lei, di Norah Jones, di tutte le cantanti con quel tocco un po’ black-soul. Poi abbiamo incontrato Spiller a una data che ha fatto con noi e lui aveva fatto un pezzo con lei, Groovejet. Ha messo il disco di Sophie Ellis-Bextor, è partita Revolution e io ci ho cantato sopra. Ci siam detti “usiamolo, è bellissimo”. Più che altro era un esperimento, non avevamo mai usato campioni, è più un lavoro da dj e da producer che da band live. Però non ci siamo posti grossi limiti, se una cosa ci piace è un peccato non farla.

Bluroom Box 2 arriverà? Quando?
Arriverà sicuramente. Non sappiamo ancora la data esatta però.

È già pronto?
No, è in costruzione. Ci sono una dozzina di tracce da scremare. Non ho ancora idea di cosa sceglieremo, ci sono alcune canzoni veramente incazzate e altre invece molto tranquille, dipenderà dal mood che avremo quando entreremo in studio. Siamo molto condizionati dai suoni, la nostra ricerca va sul suono, magari quando entreremo in studio uscirà un nuovo modello di sintetizzatore e lo useremo, il risultato dipenderà anche da quello.

LNRipley in rete

La foto Galleria di Francesca Pontiggia

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Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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