martedì, Marzo 19, 2024

Hospitality – Trouble: la recensione

Amber Papini è una mora con la voce da bionda, chitarra e frontwoman del trio newyorkese Hospitality. Dopo l’ottimo esordio del 2012 con l’album omonimo, il trio presenta Trouble che in parte rappresenta un allontanamento dall’estetica originale. Se nel primo album la patina di succoso twee-pop era più che altro una glassa pervasiva, Trouble cerca di spingere lontane le maglie insite nella definizione di genere ricercando un alone di decadenza spettrale ora romantico (Sullivan) ora dedicatorio e folk (Call Me After). Stratagemmi che corrono il rischio di palesarsi come ovvi artefatti e che non si amalgamano con continuità nella trama dell’album. Molto meglio quando i tre newyorkesi portano in primo piano gli arpeggi stuzzicanti di Going Out, cercano un’aumento del ritmo in Rockets and Jets o si lanciano in un pastiche fra l’elettrico e il new wave di Last Words. Integrando la struttura essenziale di chitarra, basso e batteria con sintetizzatori e drum machine, Trouble raggiunge dei picchi entusiasmanti ma che non cavalca fino in fondo, come in Nightingale, opener dell’album, la cui impennata sul ritornello è soffocata nella debolezza della strofa. In modo sornione e ammiccante, Amber Pampini trova il modo di parlare di lontananza, nostalgia, amore e perché no, pesca in orari notturni. Un pop dolce e “lullaby-style” dove gli arrangiamenti sono sempre sorprendenti; squisitamente retrò da film in bianco e nero (Sunship), jangly o affidati al sintetizzatore (Inaguration).

Trouble può a tutti gli effetti considerarsi un ottimo secondo tempo; seducente senza essere aggressivo, colmo di sfumature cromatiche e cammei sonori di rilievo. C’è da aspettarsi parecchio dal futuro. 

Giulia Bertuzzi
Giulia Bertuzzi
Giulia vede la luce (al neon) tra le corsie dell'ospedale di Brescia. Studia in città nebbiose, cambia case, letti e comuni. Si laurea, diventa giornalista pubblicista. Da sempre macina chilometri per i concerti e guadagna spesso la prima fila.

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