sabato, Aprile 20, 2024

Land di Babak Jalali: recensione

Sorprende ed emoziona lo sguardo con cui il regista iraniano Babak Jalali osserva la quotidianità dei nativi Sioux della riserva indiana di Praire: commosso e lucido, teso verso il significato, partecipe di una frontalità senza estetismi che non si ferma alla rappresentazione sociale e sfocia invece nell’interrogativo esistenziale. Land è infatti più di una confezione cinematografica infiocchettata da un afflato documentaristico, è l’effetto di un interesse specifico, il risultato di una ricerca etnografica attraversata dalla poetica dell’immagine. Un gesto narrativo interessato a un nulla apparente, composto da una serie di fotografie in cui il protagonista è un susseguirsi di giorni in cui la vita è un rumore di sottofondo e la fatica, l’inerzia, sembra essere la legge dell’esistenza. Un passaggio riflessivo all’interno della realtà di una famiglia contratta nell’indifferenza e nell’abitudine, dispiegato con una durezza espositiva lontana dai facili poetismi e aderente a un obiettivo espressivo preciso.

Trasmettere l’emotività di questi sconfitti tristi, indicare la fine del loro cammino, segnare il punto terminale della loro epica: è questa l’azione di Jalali, il contributo narrativo teso e dispiegato per cogliere un’entità reale, una regione remota di significato, una forma di storia trasformatasi in fatto del contemporaneo, accolto con naturalezza malgrado la sua incomprensibilità e incorniciato da una devastazione psicologica e una desolazione spirituale invalicabili. Land fotografa gli organi di cattività in possesso di una famiglia prima prigioniera dell’accettazione e poi liberata nell’espressione del lutto, facendo i conti con le conseguenze di una repentina presa di coscienza, di una risemantizzazione importante sintetizzata dall’uso dell’immagine. Sono lontanissimi i tempi sociali in cui la cinematografia western sintetizzava gli indiani in una panoramica a schiaffo per rivelarne la incombente pericolosità, la terrorizzante potenza.

Il montaggio interno di Land, unica soluzione formale del film, lo suggerisce in segreto: la verità su questi individui arginati dal progresso americano è sfumatura interiore interpretabile solo attraverso la continuità del long take. Nella sorda ripresa dei corpi degli indiani sioux l’inquadratura è infatti al servizio di un pensiero sociale e politico, cerca di porsi domande sulla questione, allontana le facilonerie, non prende le parti ma in qualche modo si fa voce emozionata, coinvolta, partecipe del dolore accumulato dai protagonisti, dai membri del reale ripreso e inscatolato in una produzione. Emerge così durante la visione la sensazione di assistere a uno sforzo valido e autentico, formalmente regolamentato da una necessità comunicativa e narrativamente esaltato da una comprensione del dolore intuitiva e profonda. Difficile assistere ad immagini così lontane da qualsiasi sentore artificioso o da intenzione preconfezionata e invece così ispirate nella loro semplicità, nella loro umile proporzione rispetto all’entità del dramma.

Leonardo Strano
Leonardo Strano
Primo Classificato al Premio "Alberto Farassino, scrivere di Cinema", secondo al premio "Adelio Ferrero Cinema e Critica" Leonardo Strano scrive per indie-eye approfondimenti di Cinema e semiotica. Ha collaborato anche con Ondacinema, Point Blank, Taxidrivers, Filmidee, Il Cittadino di Monza e Brianza

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