sabato, Aprile 20, 2024

Tonya di Craig Gillespie: la recensione

Che Craig Gillespie fosse dotato di una sensibilità straordinaria nel cogliere tutto lo spessore dei più controversi drammi privati, tratteggiarne con originalità e humor i personaggi bizzarri ma umanissimi, era già una prova il suo perfettibile ma brillante esordio cinematografico, quel Lars e una ragazza tutta sua (2007) in cui un ancora acerbo Ryan Gosling intraprendeva una relazione sentimentale con una bambola gonfiabile.

Il ruolo cardine della prospettiva che rende relativa e relativamente autentica ogni verità è sin da allora il motore del suo cinema. Motore che delinea un preciso percorso autoriale legato alla rappresentazione della provincia americana, da quella ovattata del Winsconsin, fino alla problematica e patinata realtà alle soglie di Portland, Oregon, fucina di talento e demoni per Tonya Harding, indiscussa protagonista di uno dei capitoli della storia del pattinaggio artistico, prima donna statunitense a portare infatti a casa un triplo axel, poi bandita per sempre dal ghiaccio perché ritenuta responsabile dell’aggressione ai danni diella compagna di squadra e rivale Nancy Kerrigan, avvenuta poco prima delle Olimpiadi invernali del 1994.

Il materiale a disposizione del regista è vasto, incandescente, contraddittorio. Dai filmati di repertorio che testimoniano vittorie e fallimenti, caparbietà e insicurezze, alle interviste ai diretti interessati dall’accaduto, tutto confluisce con cognizione di causa nell’insolito, accattivante biopic I, Tonya.

Gillespie confeziona l’incastro perfetto di un puzzle per natura destinato a rimanere nel limbo del non intellegibile, opera campione di un teatro dell’assurdo che sfonda la quarta parete, inghiottisce la vita vera.

Il peso specifico dei personaggi, inverosimili da lasciare esterrefatti eppure clamorose copie carbone degli originali, è sostenuto da un cast di massimo livello, a partire da una Margot Robbie mimetica sì nell’aspetto, ma soprattutto capace di restituire l’immagine interiore della Harding, tanto audace quanto fragile, empaticamente prossima al suo pubblico di ieri, agli spettatori di oggi, ma ora come allora mai del tutto afferrabile, in bilico tra verità e menzogna, nascosta dietro a un velo di imperscrutabilità.

I, Tonya non è, al contrario di ciò che Hollywood vuol far credere, l’apologia di una vittima a torto colpevolizzata, neppure ne è l’espiatoria riabilitazione massmediatica da parte di quegli stessi media che a suo tempo l’affossarono. In parte senz’altro metafora di un’America che processa se stessa per autoassolversi, è un film difficilmente riducibile a questo soltanto, dotato com’è della specifica personalità di una storia che da sola basta per funzionare. La storia di Tonya, dal principio.

Cresciuta sotto l’egida di LaVona, madre disamorata e violenta (Allison Jeanny, premio Oscar), educata a nient’altro fuorché alla competizione, si forma come può, investe anima e corpo nell’unica cosa che le viene straordinariamente bene: pattinare. Anticonvenzionale nell’aspetto, nell’attitudine, nelle scelte musicali, fatica a conquistarsi la stima degli addetti ai lavori. Quando in pista arriva la gloria, il privato si sgretola fino all’irreparabile. Vessata da un marito manesco (Sebastian Stan), ossessionato da lei a livello patologico, o banalmente opportunista, in cui credeva di aver trovato riparo dai soprusi materni, va a testa alta verso la sua rovina, complice o incosciente che sia.

Queste le linee guida di uno sviluppo che inverte spesso la rotta. Nonostante sia a tutti gli effetti la prospettiva di Tonya a indicare la traccia, il regista inscena infatti un mockumentary: alle vicende si alternano spezzoni di interviste, nessuno dei coinvolti si rispecchia nella versione della Harding, che si dichiara innocente, ignara del fatto che proprio suo marito avesse rocambolescamente organizzato un agguato alla Kerrigan per mano di terzi. Vero è che nessuno di loro appare sufficientemente integro o mentalmente stabile da essere credibile, altrettanto vero che una donna forgiata da angherie continue, vistasi tarpare le ali nel solo contesto buono per splendere, rimane un quesito irrisolto.
Al suo talento è di certo scongiurato l’oblio: a ritmo di dance, che le valse l’appellativo di “white trash” da parte dei detrattori, Tonya torna a volare mentre la macchina da presa ne sfida i virtuosismi. Brilla del successo, icona pop che dischiude tutta la luce abbagliante di quegli anni.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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