La qualità profondamente queer del cinema immaginato da Ratchapoom Boonbunchachoke conferma la stessa ricchezza nel primo lungometraggio dell’autore thailandese. Una questione di contaminazioni, ibridazioni e attitudini combinatorie che si muovono verticalmente lungo la Storia del Cinema del suo paese e orizzontalmente attraverso la passione cinefila e la rilettura di alcuni codici del cinema di genere, già filtrati dalla rimediazione contemporanea delle nuove onde storiche.
La sperimentazione sulla voce che Red Aninsri; Or, Tiptoeing on the Still Trembling Berlin Wall elaborava, giungeva ad un approdo spirituale attraverso un gioco metadiscorsivo sviluppato a partire dalla rimessa in scena dei doppiaggi thailandesi, nei film prodotti durante il corso della Guerra Fredda. Quel dispositivo aurale, riletto criticamente con formidabile ironia a partire dalla narrazione assegnata a due gatti randagi – oltre alla riflessione politica sul contrasto tra l’allineamento statunitense, le tradizioni del paese e il contenimento del comunismo in Asia – consentiva di intraprendere un percorso di riconoscimento della propria voce interiore, individuale e collettiva, con implicazioni che coinvolgevano anche la sfera identitaria e la ricerca del proprio genere, al di là delle maschere indossate dall’ego.
I 29 minuti di quel debutto, condensati in un’opera di grande cultura e invenzione visuale, si espandono nel nuovo A Useful ghost, con gli stessi presupposti, ma con la capacità di offrire un respiro maggiore ai personaggi e alle loro tragedie individuali.
Gli innesti sono sottoposti ad avvitamenti ancora più complessi, ma l’architettura narrativa ci consegna un’opera che potrebbe esser rivista più volte da prospettive diverse, tanto sono stratificate le sollecitazioni di cui ho offerto alcune possibilità d’analisi.
L’incipit che introduce la prassi del bassorilievo celebrativo, mette subito insieme storia civile, tradizioni Buddhiste e istanze politiche, combinando una serie di elementi figurativi e Storici che confermano una messa in scena rigorosa per attenzione alla forma potenziale ed ellittica del dettaglio, e per il modo in cui la ricollocazione di questi elementi riesce a suggerire un sostrato niente affatto neutro, legato all’orientamento ideologico che codifica i corpi nella loro rappresentazione. Di nuovo una propensione metalinguistica, molto sottile e non così evidente nel rivelare la presenza del dispositivo.
Questo si mostra con una serie di elementi, il primo è il pulviscolo che introduce il film, motivo che diventerà un interludio ricorrente insieme alle bruciature artificiali della pellicola, al rumore bianco della traccia sonora, alle giunture imperfette tra code e allacci, che simulano il contrasto tra materialità del film, per come la conoscevamo e trasparenza delle immagini. Il pulviscolo in particolare, legato all’idea di polvere per come viene via via decostruita nel film, politicamente e semioticamente, ricorda anche le forme meditative di un cinema sospeso tra organico e digitale. L’arpa che suona a fianco del set allestito per la creazione della scultura, contrappone a questa collettività cristallizzata, la melodia soave di Auld Lang Syne, il canto beneaugurale di tradizione anglofona eseguito per il nuovo anno, adottato in Tahilandia come inno patriottico della nuova monarchia costituzionale
I riferimenti allo smantellamento delle opere prodotte durante l’attività del Khana Ratsadon, il partito del popolo istituito negli anni trenta del novecento, rappresentano chiaramente per Boonbunchachoke le stratificazioni traumatiche sulle tracce mnestiche della Storia, dove l’organismo urbano deve evidentemente cancellare tutto per comunicare altro dal bene comune. Nelle fasi di smontaggio dei bassorilievi, gli operai passano davanti al manifesto “Nouveau, The Future is now”, chiara allusione alle istanze progressiste del dissolto Future Forward Party, adesso Move Forward Party, sul quale sembra calare un filtro percettivo ironico.
Il bassorilievo, si infrange, con le stesse modalità ellittiche di cui ho parlato e che alternativamente attraversano il cinema di Kitano, Kim Ki-duk, Tsai Ming Liang, Pen-ek Ratanaruang, Apichatpong Weerasethakul, nella relazione non riconciliata tra cinema asiatico ed europeo, quest’ultimo dichiaratamente amato dal regista thailandese. La polvere dell’opera crettata, sollevata dal vento, dissolve la memoria storica della classe operaia, per condurci nel cuore della suburbia, con i modi narrativi di un melodramma degli anni cinquanta.
L’acquisto di un aspirapolvere da parte di un uomo e il successivo malfunzionamento rilevato dai veri e propri colpi di tosse allergica da cui la macchina sembra afflitta, introducono una lettura divertita e stupefatta delle tradizioni animiste. L’innesco narrativo è anche il primo tassello dell’incorporazione di una storia dentro l’altra, che ancora una volta interroga un’analisi multisoggettiva sulle ragioni fondative di una nazione, su quelle individuali ed infine sull’identità di genere come possibilità di rileggere la Storia da una prospettiva marxista.
L’elettrodomestico posseduto dallo spirito di un lavoratore morto, per come lo racconta il tecnico d’assistenza giunto in casa del cliente per la riparazione, fa parte di un ecosistema di abusi legati al potere aziendale di una dinastia alto-borghese.
In quel contesto si interseca la storia del figlio della padrona, depresso per la perdita della moglie, e dello spirito di questa, anima gentile capace di manifestarsi nel corpo meccanico di un piccolo aspirapolvere.
L’involucro di una commedia fantastica, a tratti esilarante, serve a Ratchapoom Boonbunchachoke per elaborare un complesso discorso sulla memoria identitaria, da intendersi nella sua valenza storico-collettiva e nella dimensione di una storia parallela del proletariato, riscritta anche attraverso un punto di vista queer.
Queer è anche la commistione di realtà e astrazione surreale, immaginazione e spazio architettonico empirico. Le location sono quelle urbane, oppure legate alla morfologia della fabbrica e ancora ad un’aula universitaria adibita al test di apparecchiature elettroniche, che Boonbunchachoke sfrutta per il potenziale magico e iperrealista, inventandosi l’elettroshock come pratica esorcistica, dove la memoria viene liberata dai desideri fantasmatici presenti nella propria vita. Quello spazio si avvicina per certi versi alla fantascienza di Nicolas Roeg, fatta di luoghi reali e decontestualizzati, recuperando per analogia l’interior design della navicella spaziale di Thomas Jerome Newton.
Ed è lo stesso realismo magico che investe gli oggetti funzionali, gli elettrodomestici, le invenzioni del design incorporato nella quotidianità, con uno sguardo queer fatto di vita propria, vicina per certi versi alle istanze del cinema surrealista nella relazione tra animato e inanimato, desideri e parafilie.
L’interazione tra i vivi e i morti è un’elaborazione ulteriore dei principi animisti secondo una prospettiva più lacaniana che Buddhista, ma allo stesso tempo non rinuncia alle forme più ineffabili, suggerendo la cura del mondo dei morti, attraverso il dispositivo individuale e politico della memoria.
Gli spiriti che possiedono oggetti, piccoli poltergeist di più storie gotiche cannibalizzate dal cinema di genere, sembrano promanare dall’ingiustizia sociale, dall’irresolutezza delle loro esistenze in vita, ma anche dalla necessità di acquisire nuova consistenza attraverso l’attivazione della memoria proiettata verso il futuro. Coesistenti rispetto alla realtà fattuale, chiedono di non essere obliterati nella retorica del passato.
Nella contrapposizione tra le radici di una coppia tradizionale e i desideri di un popolo fatto di operai, serve, omosessuali, emerge il dramma della cancellazione e dell’oblio, rispetto alle tracce narrative determinate dal potere politico e religioso. La coesistenza della vita con la morte diventa allora una questione che allarga la prospettiva del ricordo individuale alla necessità di rappresentare la storia degli oppressi.
Il fantasma come articolazione del desiderio che si frappone tra compimento e mancanza, non può trovare requie fino a quando non viene riconosciuto e amato.
Oltre alla sorprendente qualità pittorica del cinema di Boonbunchachoke, capace di sfruttare le potenzialità del fuori campo nella tensione tra realtà ed astrazione, è l’elegia come canto degli oppressi ad assumere una valenza trasversale. L’oppressione non è semplicemente quella di una classe contro l’altra, quanto quel vuoto definito tra il ruolo assegnato e lo spazio interiore.
Era chiarissimo nel segmento conclusivo di Red Aninsri; Or, Tiptoeing on the Still Trembling Berlin Wall, ed è progressivamente chiaro in A Useful ghost, dove ciascun personaggio occupa un anello della catena, rispetto al potere, che affonda le radici nell’annichilimento dei propri desideri o nell’illusione che questi non abbiano a che fare con la sopravvivenza di una collettività plurale.
Film affascinante, di rara potenza, sfrutta le suggestioni del cinema di genere attraverso un’articolata costruzione intertestuale che eccede quei confini radicati nelle tradizioni di una cultura nazionale.
Sublima quindi risata e violenza, melodramma e immagine del tempo, grazie alla deterritorializzazione di una caratteristica dentro l’altra e all’incedere di un racconto erratico, che si impossessa di un personaggio dietro l’altro e sposta impercettibilmente tutti i climax verso la catarsi collettiva che in una mostruosa e libertaria resurrezione, unisce le ragioni dei vivi a quelle dei morti.
A Useful Ghost di Ratchapoom Boonbunchachoke (Thailandia, Francia, Singapore, Germania 2025 – )
Sceneggiatura: Ratchapoom Boonbunchachoke
Interpreti: Davika Hoorne, Apasiri Nitibhon, Wanlop Rungkumjad, Wisarut Himmarat, Wisarut Homhuan
Fotografia: Pasit Tandaechanurat
Montaggio: Chonlasit Upanigkit
Suono: Lim Ting Li
Musica: Chaivobon Seelukwa