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American Sniper di Clint Eastwood: la recensione

American Sniper è un film attraversato da continue ambivalenze, immerso nella rappresentazione di una guerra soggettiva non contrappone esplicitamente due diversi punti di vista, assumendo la linea dello sguardo di Chris Kyle, tiratore scelto dei Navy Seals dalla mira infallibile e con 160 colpi mortali mandati a segno durante la guerra in Iraq; una scelta quella di Clint Eastwood che sembra lontana dalla complessità del doppio Flag of Our Fathers/Letters From Iwo Jima, ma che in realtà racchiude tutti i momenti deturnanti del suo cinema, fino a raggiungere quell’ambiguità interpretativa che complica il valore dei segni rovesciandoli, o semplicemente lasciando che ad assumere una posizione rispetto al regime scopico delle immagini, sia compito di chi guarda.

American Sniper è quindi allo stesso tempo un film dentro lo sguardo della morte, ma anche fuori; aderente e in opposizione rispetto al sentimento patriottico, vicino al dolore della perdita ma ferocemente distante, infine totalmente spiazzante sulle origini del male, perché la chiarezza emotiva e allo stesso tempo soggettiva delle immagini televisive che dal World Trade Center spalancano una finestra nello spazio privato, sembrano ripetersi nell’incubo ad occhi spalancati che si apre dal mirino di Kyle: “se chiudo l’altro occhio, non vedo quello che c’è laggiù”.

La ricerca costante di uno scenario certo, inequivocabile, è sottolineata dai continui moniti dei compagni di Kyle a tirare il grilletto solo in presenza di un’effettiva condizione di pericolo, ma sopratutto dai movimenti del cecchino, intento a rifinire il punto di vista con il calcolo della distanza e la messa a fuoco, la stessa che risulterà sul limite, incerta e impossibile quando dovrà individuare Mustafa, il bersaglio eccellente con il suo stesso ruolo dall’altra parte del conflitto.

L’immagine che si riferisce al primo doppio bersaglio di Chris, storicamente colpito a Nasiriyya nel 2003, quello che mette al centro del mirino una donna con un bambino mentre trasportano una granata destinata ad un avamposto, genera un’irrisolta sovrapposizione tra nausea e tensione, rifiuto e sollievo, proprio nel suo spietato allineamento con quello dell’inquadratura, in una rappresentazione “ottica” della guerra, molto diversa sia dalla distanza extraretinica che Tommy Lee Jones esperimenta in “In the valley of elah” di Paul Haggis durante la ricerca del figlio reduce dalla guerra in Iraq, mentre visiona immagini digitali che si corrompono, si disintegrano, mostrano l’artefatto al posto della documentabilità certa dell’immagine, ma anche dalla realtà telepresente del “Redacted” Depalmiano, continuo cortocircuito dell’immagine digitale moltiplicata dai mezzi di condivisione di massa, una trasparenza talmente esibita da diventare accecante.

Rispetto a questa distanza gelida, dove i corpi e la verità documentale vengono cancellati da un eccesso di realtà che sommerge la coscienza, lo sguardo di “American Sniper”, nel suo continuo mettere a fuoco il campo visivo, distoglie ugualmente da una visione d’insieme modificando la comprensione dei due spazi incongrui in cui Kyle in qualche modo si evolve, quello di un conflitto osservato attraverso un mirino e quello famigliare; proprio quest’ultimo perde i suoi confini, in una rappresentazione dei disturbi post-traumatici che Eastwood mostra attraverso lo sguardo vitreo di Bradley Cooper spalancato su una realtà dai contorni incerti , ormai incapace di mettere a fuoco il pericolo, mentre si scaglia contro un cane che gioca con il figlio, oppure interpreta il pianto della figlia appena nata come il segno di una tragedia imminente.

Ancora una volta è il disinnesco delle convenzioni percettive, quelle di cui abbiamo parlato a più riprese su indie-eye in relazione al cinema di Eastwood (Invictus, Hereafter per citare alcune occorrenze critiche), ad assumere il peso di rappresentare la discontinuità del reale, sono in questo caso alcune possibilità di messa a fuoco degli stessi segni indirizzate allo spettatore, sempre e comunque ambivalenti e in dialogo tra di loro, come l’attenzione ai dettagli che mostrano le mutilazioni dei reduci; la pistola impugnata da Kyle mentre entra in cucina dalla moglie, inquadrata subito dopo nel contesto di un gioco affettivo; ma anche quella giustapposizione tra il primo doppio bersaglio di Chris  e il cerbiatto che cade sotto i suoi colpi, durante la prima battuta di caccia fatta con il padre, una storia della violenza che assottiglia tempo, distanza e differenze anche culturali, sovrapponendo l’immagine di due bambini.

È una prospettiva marcata stretta sull’immagine soggettiva quella di “American Sniper”, distante per certi versi dall’inferno di carne dell’ultimo Tsukamoto, per il diaframma scopico frapposto tra morte e corpo che Eastwood sceglie come punto di vista allineato alla prassi del cecchino, ma molto simile nella progressiva perdita di un orizzonte visivo che nel film del regista giapponese elimina qualsiasi dualismo per rappresentare una terribile energia negativa dalla qualità quasi tattile, mentre per Eastwood questa stessa eliminazione delle coordinate corrisponde ad un accecamento sensoriale, con l’ultimo bersaglio andato a segno, origine scatenante di un accerchiamento che non consentirà più di prendere la mira e di inquadrare in modo certo il nemico, una battaglia di fuoco assorbita dall’opacità caotica di una tempesta di sabbia.

Ed è interessante il ruolo episodico, quasi sospeso in una temporalità parallela e incollocabile che Eastwood dedica ai frammenti di vita famigliare, volutamente sbilanciati rispetto alla parte bellica del film. Quando Chris e la moglie Taya cercano di comunicare per telefono mentre Kyle si trova nelle zone di guerra, non sarà mai possibile per loro portare a termine la conversazione, non è importante l’opportunità delle sequenze, quanto l’attenzione rivolta al senso di isolamento percettivo che Taya vive rispetto all’invadenza distruttiva della guerra, lo stesso che Chris prova in una realtà come quella quotidiana percepita come irreale e inutile; quando il tiratore scelto farà ritorno a casa, dopo nove mesi di assenza, non tornerà immediatamente dalla moglie, rimanendo qualche ora in un pub deserto.

Non è solo una sospensione del tempo, ma anche del senso, quella che attraversa tutto American Sniper, film assolutamente crepuscolare e anti-agiografico, a meno che non si voglia ostinatamente recuperare gli errori d’annata e poco nobili di Pauline Kael che nei primi anni ’70 bollava Don Siegel come fascista senza troppi complimenti; il volto di Sienna Miller che guarda verso di noi con un’espressione distante, sorpresa in una dimensione che la separa da una realtà di cui non fa parte, è la vera conclusione del film, prima ancora delle sequenze di repertorio che ci mostrano i funerali militari di Kyle, immagini sgranate, anti-celebrative e completamente fuori fuoco; epilogo beffardo e nient’affatto trionfale.

 

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