Girato interamente in 16 mm tra aprile e maggio 1980, e gonfiato successivamente in 35 mm tramite l’allora neonata Filmirage, fondata dallo stesso D’Amato, Antropophagus si colloca tra Buio Omega (1979) e Rosso sangue (1981) nell’esplorazione di Aristide Massacesi dell’horror estremo e gore.
Il soggetto, scritto da Joe D’Amato insieme a George Eastman, che nel film interpreta il “mostro” antropofago, si ispira vagamente al modello narrativo di tipo “chiuso”, analogamente a Dieci piccoli indiani, mescolando elementi tipici del cinema slasher statunitense, con la ferocia del filone cannibalico europeo, ma senza cadere alla lusinga della cornice esotica, grazie ad un ambientazione Greca che desertifica ogni tentazione accessoria.
Un gruppo di turisti giunge nel luogo per una vacanza, ignari del pericolo che li attende. Un mostro cannibale che li coinvolgerà in un’orgia di morte.
D’Amato sfrutta l’inventiva artigianale per offrire il massimo della prossimità all’oscenità della morte, realizzando le sequenze di smembramenti e autocannibalismo grazie a tecniche che evidenziano l’approccio totalmente organico: interiora di maiale per simulare quelle umane, oppure un coniglio sanguinante per ricreare con il massimo del realismo disponibile un feto strappato dal ventre della madre.
Antropophagus finì nella lista nera dei “video nasties” britannici, proprio a causa della sequenza appena descritta, scatenando addirittura accuse che associavano il film agli snuff movies e inibendone la circolazione. La versione internazionale, distribuita negli USA come The Grim Reaper, fu pesantemente tagliata.
Sebbene il film non appartenga direttamente ai cannibal movie “classici” (ambientazione amazzonica, tribù indigene), adotta un’estetica dello shock e del tabù vicina ai principi estetici dei mondo movie.
Il gore viscerale di D’Amato si può considerare una derivazione cruda di quel contesto cinematografico, ma adattato all’horror narrativo piuttosto che al mockumentary.
In questo senso un confronto con Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, uscito nello stesso periodo, diventa necessario proprio in virtù delle similitudini e di altrettante differenze.
Cannibal Holocaust adotta una forma pseudo-documentaria legata alle strategie di un supposto found footage, che lo colloca nel solco dell’analisi metacinematografica, la cui funzione riflessiva serve per evidenziare le criticità del linguaggio mediale e del colonialismo culturale. Antropophagus, invece, è un horror narrativo lineare, ambientato in uno spazio chiuso e isolato, che si rifà più chiaramente alla tradizione dello slasher americano, al cinema gore e per certi versi si avvicina maggiormente alla disperazione del cinema fulciano dello stesso periodo.
Se Deodato impiega animali veri uccisi e una fotografia naturalistica per generare shock realistico, D’Amato al contrario opta per una dimensione più “gotica” e teatrale del gore, evidenziando in forma iperrealista gli ambienti desertificati e spettrali del territorio greco. Gli effetti di Antropophagus sono più artigianali e “cinematografici”, mentre quelli di Cannibal Holocaust puntano a confondere lo spettatore con l’avvitamento tra fiction e realtà.
In entrambi i film il cannibalismo è l’elemento chiave: per Deodato è il punto finale della violenza coloniale, con gli “indigeni” che si vendicano sui documentaristi, mentre per D’Amato è la manifestazione di un trauma individuale, segnato dalla perdita del nucleo famigliare, capace di trasformare il protagonista sopravvissuto in una bestia che supera i limiti tra umano e non umano. Dunque, dove Deodato esternalizza il male, mostrandolo nelle dinamiche sociali, D’Amato lo interiorizza cercandolo nella psiche dell’individuo.
Cannibal Holocaust è quindi attraversato dallo spirito dell’invettiva politica e si inserisce in un solco fortemente moralista e ideologico rispetto al nichilismo di D’Amato, che nietzschianamente scruta il fondo dell’abisso, per evidenziare il rischio di esserne risucchiati.
In questo senso è il tabù antropologico del cannibalismo, come confine simbolico tra umano e non umano, ad avvicinare l’elaborazione di Massacesi alle riflessioni di Bataille.
L’antropologo francese, in La parte maledetta, interpreta il tabù come ciò che protegge la società dalla disgregazione, e che allo stesso tempo rappresenta una fonte di attrazione. Il superamento del tabù è dunque esperienza liminale, sacra, distruttiva.
Nel caso di Antropophagus, il cannibale non è un “altro” esotico, ma un occidentale, un borghese europeo. Questo dettaglio rende il film ancor più disturbante: il mostro è parte di noi, è insito nel concetto stesso di famiglia, ed è infine l’uomo civilizzato a generarlo. Il ritorno all’antropofagia è una regressione traumatica, ma anche una ribellione muta contro la perdita di ordine e senso.
D’Amato non discute questo tabù in termini culturali, ma lo mette in scena come orrore viscerale, privato, irrappresentabile. Il feto divorato non è solo shock: è l’incubo freudiano della dissoluzione dell’origine, della maternità violata, della fine della riproduzione e quindi della cultura stessa.
Antropophagus, il Blu Ray Video Popcorn Editions
La bella edizione edita dalla francese Video Popcorn è un Blu Ray Digipack che contiene un booklet con un lungo saggio di approfondimento del critico David Didelot, che oltre ad esaminare il film, contestualizza in modo puntuale la carriera di D’Amato.
Il film è presentato nella versione italiana, in quella francese e in quella inglese con sottotitoli in lingua francese.
Il comparto extra include un ricchissimo approfondimento di 42 minuti sul film, curato da Arnaud Bordas.