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Atlantide di Yuri Ancarani: recensione

Venezia tra coscienza e visione, nel nuovo film di Yuri Ancarani. Atlantide al confine tra la vita e la morte, acqua e oblio. Da vedere assolutamente in sala, dal 22 al 24 novembre compresi. Distribuzione I Wonder Pictures. La recensione di Michele Faggi

Lo sguardo fantascientifico è probabilmente una delle possibilità per avvicinare la visione stratificata di Yuri Ancarani. Film dopo film, l’artista ravennate disinnesca la rappresentazione scopica del paesaggio, circoscritto o espanso che sia, preferendo l’esperienza immersiva, a partire dalla prassi del filmmaking. Dentro realtà inconoscibili, talvolta nascoste nelle stanze della nostra psiche, individua luoghi dell’immaginario, ben radicati nella fusione tra ambiente e tempo. E la concezione del tempo in particolare, vive solo in parte attraverso la restituzione di quello storico, perché ne sonda conseguenze e derive inattese, rivelando la sopravvivenza di ritualità sconosciute, improvvisamente visibili con i corpi situati nell’essenza transtorica del soggetto.

Atlantide in particolare, sin dal riferimento esplicito ad un territorio dell’immaginario che risiede tra antropologia e letteratura fantastica, è l’avventura più coraggiosa di Ancarani, perché sceglie volontariamente Venezia, la cui immagine di massa è ormai mappata dalle consuetudini che hanno generato i fenomeni di overtourism, per chi ne promuove i meccanismi e per chi contesta gli effetti.

La geografia qui è un’altra. Eminentemente acquatica, esplora un territorio più vasto, dove i luoghi sono più di uno e la città che conosciamo vive in una relazione costante con altri satelliti.
Spazio concreto e allo stesso tempo di fluidità impalpabile, Venezia prende forma attraverso i gesti, le abitudini e il punto di vista degli adolescenti che passano il tempo a bordo dei barchini, dove suono e velocità spezzano i rumori della laguna, con i diffusori a bordo sparati al massimo e i codici della trap ad unificare l’esperienza collettiva.

Dalla parte opposta rispetto alla cronaca locale, Ancarani cerca di comprendere un mondo nascosto, ma vivissimo, entrandoci dentro tanto da consentire alla narrazione un respiro dilatato e in sintonia con il tempo dell’esperienza.

I livelli sono molteplici. Il primo identifica lo sguardo in una posizione complice, ma un passo indietro rispetto all’orizzonte filmato. Prospettiva possibile mantenendo sempre il livello dell’acqua e tenendo al centro un’idea di visione che possa riacquisire il senso di possibilità dischiuso dal paesaggio stesso, spazio in continuo divenire, dinamico e complesso.
Una vitale aporia che Ancarani stesso tiene in equilibrio tra precisione dell’occhio, così attento alla centralità estetica, e improvvisa capacità delle immagini di abitare la meraviglia e l’esaltazione, mentre accadono.

C’è poi il processo metamorfico del rituale, restituito attraverso un percorso di apprendimento che mette in relazione la conoscenza dei motori con l’esplorazione di un territorio multiforme.
Dal raccoglimento monastico e rurale dell’isola San Francesco del Deserto, passando per altre stazioni, luoghi inaccessibili ai più dove i barchini si sfidano, fino all’esplosione cromatica in notturna, dove le luci disegnano il volto di una città oscura ed erotica, se con il termine intendiamo l’insieme pulsionale di tutte le manifestazioni del desiderio.
Questo erotismo Ancarani non lo disegna solamente con la consueta prossimità ai corpi, l’attenzione ai gesti del lavoro o della ripetizione tecnica, ma anche con il colore, davvero estremo, della Monstro, camera dell’ecosistema Red che filma in 8k.
I fuochi d’artificio, le luci delle grandi navi che plasmano le sagome dei ragazzi in festa, quelle irradiate dai barchini stessi, infine la promiscuità chimica di una Venezia dominata dal rosso e dal nero, la benzina che sporca l’acqua, il fuoco che incendia la laguna notturna.

Nello spazio contemplativo delineato dal lavoro aurale di Mirco Mencacci, così attento a ripercorrere le suggestioni del film attraverso i suoni, si innestano gli stessi contrasti tra dilatazione e violenza presenti sul piano visuale.

La colonna sonora di Sick Luke non ha quindi un ruolo diverso rispetto a quella di Ben Frost per Piattaforma Luna. I brani scritti dal beatmaker e (t)rapper italiano raccontano una generazione dall’interno, laddove il musicista australiano sfiorava il rumore delle macchine. Le basi di Luca Antonio Barker si confondono con la ritualità di Daniele e dei suoi coetanei e soprattutto sono fatte della stessa pasta che muove la loro spinta vitalistica fino all’estremo limite.

In termini visuali, Ancarani colloca la sua Atlantide su questo stesso confine, tra la vita e la morte. Non solo scegliendo con accuratezza e libertà dove posizionare l’obiettivo, quasi per cogliere quel senso di precarietà nella corsa, nella fuga dalle autorità, nell’amplesso consumato sul barchino nascosto da un ponte, ma delineando i tratti di una città dalla geografia sfuggente e reticolare, dove la mutevolezza del paesaggio disegna la Venezia più sospesa tra luce ed ombra dai tempi di quella immaginata da Nicolas Roeg.

Il contrasto di cui parlavamo è allora tra l’incedere contemplativo e l’emersione degli impulsi crudeli di gioventù in uno spazio alieno, assolutamente futuribile nella sua precognizione elementale, come nei migliori film di fantascienza.

Non è un caso che per il trip conclusivo, una visionaria esplorazione della città acquatica al di là della vita e ai margini di una celebrazione funebre, Ancarani abbia associato la partitura di Francesco Fantini e Lorenzo Senni, scritta secondo tradizione, seguendo una magniloquenza narrativo-sonora che può essere esperita solo su grande schermo.

Quale Venezia stiamo osservando, da una prospettiva inclinata, con l’acqua che diventa una parete e specchia i tratti architettonici di una città palindroma?
Quella che affonda oppure quella sommersa?
E quale sarà la nostra prospettiva, quando la visione platonica di Atlantide non sarà più radicata in un passato indocumentabile, ma prevista, tra splendore e orrore, entro l’orizzonte di un possibile futuro?

Atlantide di Yuri Ancarani (Italia, Francia, USA, Qatar – 2021 – 104 min)
Interpreti: Daniele Barison, Bianka Berényi, Maila Dabalà, Alberto Tedesco, Jacopo Torcellan
Fotografia: Yuri Ancarani in collaborazione con Mauro Chiarello
Montaggio: Yuri Ancarani e Yves Beloniak
Suono: Mirco Mencacci, Mirko Fabbri
Musiche: Sick Luke, Lorenzo Senni/Francesco Fantini
Prodotto da: Dugong Films con Rai Cinema(IT), Luxbox (FR), Unbranded Pictures (US), Alebrije Producciones (MX), Mirfilm (RU)

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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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