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Babadook di Jennifer Kent: sull’abiezione

Jennifer Kent filma con estrema attenzione, con mano fermissima, senza eccessi, un'opera minimale e di eleganza estrema trovando nel fantastico il substrato ottimale per un racconto che nutre la sua tensione proprio in tutti quei segni che da sempre fanno da stimolo all'immaginario orrorifico

Parte da un assunto che poteva venir in mente a Fassbinder, questo gioiello del cinema di paura (il rifiuto della maternità e la mancata elaborazione del lutto, vissuti allo stremo dell’autodistruzione, in un’esagitazione emotiva deflagrante ed inarrestabile) non fosse che da subito, dalle movenze e dallo stesso aspetto fisico della protagonista che mima in tutto la Catherine Deneuve di Repulsion, è lo stigma di Polanski ad affiorare prepotente.

Perché è certo che Lynch è una presenza incombente (ma più sul piano visivo: la casa in cui si muove l’intera vicenda pare nascondere tra i suoi anditi le stanze di Rabbit) e l’eponimo Babadook ha un profilo espressionista per traslato burtoniano ma dietro le apparenze di un horror dalle mosse canoniche, si nasconde un’aspra allegoria sul difficile confronto tra psiche ed inconscio.

Questo è il nucleo di un film estremamente femminile e nella sua concezione e nel suo sviluppo, che è horror, sì, ma quasi per caso. Tanto che tutti i ganci al genere appaiono così eccessivi, quando non meramente archetipici, da sembrare, per un attimo, superflui. Non lo sono: al contrario, la praticamente esordiente alla regia Jennifer Kent (già attiva, però, come attrice soprattutto in TV) trova nel fantastico il substrato ottimale per un racconto che nutre la sua tensione proprio in tutti quei segni che da sempre fanno da stimolo all’immaginario orrorifico: lo scontro tra mostri interiori ed esterni, veri o presunti, quindi il dubbio sulla veridicità della visione; il terrore ancestrale: il buio, l’ignoto, la presenza ultraterrena; il crollo dell’istituto familiare e per estensione il ribaltamento della casa, da tana o culla, ad autentico luogo del conflitto. Tutti elementi ben presenti in una storia che già dalle prime, si presenta come densissima osservazione sul male di vivere, sulla negazione del dolore, sulla sublimazione totemica, sulle derive della mente.

Amelia ha subìto un trauma la stessa sera d’aver partorito il suo unico figlio, Samuel: il marito è morto in un incidente d’auto accorso loro poco prima di arrivare in ospedale. Da quel momento si è rinchiusa in una solitudine sempre più soffocante, con l’unica compagnia dello stesso Samuel verso il quale nutre, però, un sentimento ambivalente d’amore e repulsione (appunto). Questi, da par sua, ha sviluppato un carattere problematico, sensibile ed aggressivo. La routine, già al limite della paranoia, viene rotta ulteriormente dal ritrovamento di un libro pop-up che invade, progressivamente, la precarietà di madre e figlio, sino a trasformare le sinistre prefigurazioni della pagina scritta (e disegnata splendidamente), in una reale presenza, oscura e minacciosa: l’uomo nero (il Boogeyman degli anglofoni), il Babadook. In una veloce discesa nell’incubo, non sarà più semplice capire quanto l’ombra malevola del mostro sia frutto della mente della donna, una pericolosa minaccia tangibile o un costrutto filmico mirato a problematizzare, in forma di favola nera, il conflitto tra il sé e la sua interiorità (i mostri dell’anima, prima fatti crescere a dismisura, poi ricontenuti ma mai davvero annientati. Anzi, nascosti e nutriti e proprio grazie a questo, per averli riconosciuti ed affrontati a viso aperto, tenuti strenuamente a bada. Forse sotto controllo).

Jennifer Kent filma con estrema attenzione, con mano fermissima, senza eccessi, un’opera minimale e di eleganza estrema; fredda, nei colori, nei tempi, nella messa in scena ma al contempo coinvolgente, senza alcuna caduta e che non si accontenta di salire di tono progressivamente, come i dictat dell’horror pretenderebbero, al contrario, dando da subito un tempo medio sul quale sviluppare l’intero narrato. Un tempo apparentemente disteso, carico invece di una tensione emotiva, che va sempre più elettrizzandosi per accumulo d’input negativi, di un’angoscia che attanaglia dalle prime battute e che farà da sostrato all’intera vicenda. Le citazioni si sprecano (da Bava a Meliés) ma non soffocano il racconto, non soffocano l’immagine che brilla di una luce oscura, immersa com’è in un buio che col trascorrere dei minuti si fa sempre più intenso, omnicomprensivo.

Un’esperienza totalizzante, il contatto col Babadook, che impaurisce sul serio, malgrado la Kent depisti lo sguardo sui giocosi montaggi in tv e le poche volte che viene mostrato in penombra, si muova in stop motion malcelando, volutamente, una nera ironia. Ma terrificante proprio perché dietro nasconde una realtà che chiunque può riconoscere e della quale avere, realmente, paura; perché più difficile da affrontare di un qualunque altro mostro, di un qualunque vampiro, licantropo o zombie: se stessi.

I due protagonisti (eccellenti Essie Davis ed il piccolo, superlativo, Noah Wiseman) sono costretti ad un tour de force alla fine del quale saranno cresciuti, mutati, migliorati. Subendo una mutazione che è davvero, nel cinema degli ultimi anni, e non solo horror, quasi del tutto inedita.

C’è da credere, anzi da auspicare, che questo piccolo film indipendente australiano, possa divenire col tempo una pietra d’angolo. Sempre che riesca a non confondersi col marasma di filmetti di terza che lo schiacciano da ogni parte.Cinema autentico da vedere in sala, da studiare, amare, proteggere.

RASSEGNA PANORAMICA
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Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.
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