Dolore. È il motore che muove il nuovo film di Sharunas Bartas.
Nato come progetto condiviso insieme alla figlia Ina Marija Bartaité, inizialmente coinvolta nei ruoli di protagonista e co-sceneggiatrice, viene sospeso dopo la tragica morte della giovane e promettente attrice e successivamente rielaborato insieme allo sceneggiatore croato Ognjen Sviličić.
Girato nel distretto di Giedraičiai, in un villaggio vicino a Vilnius, prosegue la ricerca radicale del regista lituano con i movimenti e i volti di attori non professionisti, scelti nel contesto di quei luoghi, famigliari eppure ostili nella loro immobilità e circolarità temporale.
La storia originaria di una giovane donna alla ricerca di una collocazione identitaria, muta nel ritorno a casa di Simona, interpretata da Neringa Puidokaitė, al capezzale della nonna morente e nuovamente immersa in un intreccio di tensioni famigliari irrisolte.
Back to the family dialoga a distanza con Peace to Us in Our Dreams, non solo per l’avvitamento tra elaborazione finzionale e tracce autobiografiche, ma soprattutto per il modo in cui in quel film Ina Marija si confrontava con l’assenza della madre, Ekaterina Golubeva, segno incarnato del tempo come presenza densa e allo stesso tempo impalpabile, eppure definita dalla nudità ontologica del silenzio.
L’eterno presente che collide con la natura errabonda dei personaggi bartasiani, genera nuove aporie oltre a quelle determinate dall’abbandono di corpi e oggetti in uno spazio apparentemente immutato.
Il regista lituano torna infatti a sperimentare con la parola, grazie anche al contributo di Sviličić, elaborando la dimensione scritta dei dialoghi, le cui unità significative diventano periodizzazioni incomunicanti e incapaci di stabilire una relazione rivelatoria con le necessità organizzative della memoria.
Simona si trova improvvisamente al centro di una serie di traumi mai elaborati e incistati nella vecchia mobilia, nella luce flebile che investe una casa dove i segni del tempo hanno i colori della decomposizione, nel corpo di una madre bloccata dalla coazione a ripetere di un senso di colpa indicibile, negli abusi ripetibili eppure tragici di un padre che abita lo spazio come tutti gli altri, subendo il peso della durata.
Identità aliena e di passaggio, la giovane donna attraversa la staticità di un mondo privo di qualsiasi teleologia, scontrandosi drammaticamente con l’inerzia stessa della parola.
Le sue continue sollecitazioni ad innescare una reazione capace di nominare la concretezza dell’orrore, cadono a vuoto in mezzo alla sequenza di parole spezzate, frasi interrotte, descrizioni e confessioni che non approdano né sviluppano la catarsi. Rimane allora solo il valore fonetico e aurale di queste ripetizioni, nel raddoppio di quel ristagno temporale accumulato sui volti, le pareti, i piatti con il cibo, i gesti che tendono a tratteggiare una ritualità negativa.
Non è nuova l’esplorazione del mondo rurale lituano nella filmografia del regista, dove all’isolamento geografico corrisponde l’annichilimento e la distanza emotiva dei personaggi che si confrontano con il paesaggio. Quella che Bartas stesso ha definito in varie occasioni come la costruzione di una “propria realtà interna”, capace di limitare la percezione e la qualità dell’esperienza, viene estremizzata dal viaggio di Simona, ritornante nella stasi del passato, dove l’eterno riperdersi rischia di intrappolarla nella similarità inesorabile e ripetuta del dolore.
Mentre l’unica comunicazione possibile è quella con la nonna in fin di vita, attraverso la semplificazione del gesto affettivo dove la parola non serve, il contenitore rivela tracce di morte ovunque.
La dimensione del ricordo allora è quella che attivano tutti gli erranti bartasiani, come se affrontassero un viaggio anti-metafisico a ritroso nel tempo, nei luoghi dove un trauma non è mai stato risolto né raccontato sino in fondo, sostituendo del tutto la costruzione dei limiti e dei confini entro cui la realtà si rivela.
Simona subisce allora uno spossessamento del suo stesso percorso narrativo e identitario mentre in un’ellisse che apre e chiude il film, entra ed esce da uno spazio transizionale simile a quello onirico.
Come accadeva in Sutemose, la maggiore presenza del dialogo rispetto ad altri film di Bartas, segnala il contrasto tra due temporalità disomogenee. La prima, strettamente connessa alle radici di un mondo immutabile, non può emanciparsi da una sofferenza già inscritta nell’abissale differenza tra la presenza umana e la messa in scena del tempo, inteso come ascolto elementare dello spazio.
La seconda è quella del soggetto nomade. Simona, come lo spettatore, migra senza potersi adattare a quella cristallizzazione, suggerendo il paradosso tra viaggio e staticità, movimento e addensamento di ciò che potremmo definire come ritmo dell’esistenza.
Nessuna trasparenza reciproca è allora possibile in questa dialettica negativa che potremmo descrivere con le intuizioni di Theodor W. Adorno, dove l’oggetto resiste a qualsiasi comprensione, sottraendosi dai processi di elaborazione cognitiva, e il soggetto non è in grado di afferrare completamente l’alterità.
I volti nel cinema di Bartas, rimandano a questa impossibilità di assimilazione, se non attraverso la dimensione potenziale della contemplazione, dove orrore, distacco e tenerezza possono convivere senza il predominio di una connotazione sull’altra. Resistente al concetto, l’altro trattiene una verità inconoscibile. Ecco che le confessioni inespresse della madre, contro cui si scaglia quel “Dillo, non riesci a dirlo?” di Simona, segnalano una drammatica irrappresentabilità mediante l’enunciazione.
Rispetto alle parole fratturate e al loro fallimento comunicativo, ancora di più, in Back to the family il volto è altra cosa dal linguaggio.
Ecco perché Simona, prima di uscire definitivamente dai luoghi della memoria, ne assorbe tutte le caratteristiche distruttive, in un pianto senza fine generato dalla relazione impossibile con il non-identico e l’inerzia del tempo.
Sembra allora che la mancanza di speranza che attraversava le due riflessioni belliche di Bartas tra Ucraina e Lituania, Frost e Sutemose, torni alla dimensione del transito fantasmatico che caratterizzava l’anti-viaggio di Ekaterina Golubeva in Few of us, ma anche al dis-apparire di Ina Marija nel buio oltre la finestra da dove osservava il padre con la nuova compagna in Peace to us in our dreams.
Lo sguardo viene negato nella radicale impossibilità di esercitarlo per modificare la realtà.
Il dissimile, ciò che i personaggi bartasiani non riescono quindi a comprendere, insieme alle porzioni di realtà da cui sono espulsi, è separazione dal visibile, fino all’unità minima del volto, cellula pre-linguistica che non rappresenta, per rifarsi al Blanchot de L’entretien infini.
La memoria, i volti, le parole che girano a vuoto e il tempo come erosione, negano l’evento, dall’ingresso fino all’uscita dallo stesso, mostrandoci la disarticolazione dell’esistenza.
Back to the family di Sharunas Bartas (Lituania, Francia, Polonia, Lettonia 2025, 91 min)
Sceneggiatura: Ognjen Svilicic
Interpreti: Neringa Puidokaitė
Fotografia: Lukas Karalius
Montaggio: Lucie Jego