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Being Eriko di Jannik Splidsboel: recensione

Il documentario di Jannik Splidsboel racconta cosa significa diventare Eriko Makimura

Incessante lotta con la materia quella della pianista e performer Eriko Makimura. Cresciuta con le rigide regole che caratterizzano l’educazione dell’elite giapponese, comincia a suonare il piano all’età di due anni e a cinque si esibisce per la prima volta in pubblico.

L’eccellenza meticolosamente ricercata, diventa la cornice della sua vita fino a 29 anni, anno del suo ultimo premio ad un concorso pianistico che coincide con la scelta di trovare se stessa, fuori dallo schema performativo rigidamente applicato fino a quel momento.

Il documentarista danese Jannik Splidsboel avvicina nuovamente una figura sul bordo, mentre affronta un difficile processo di trasformazione identitaria. In questo caso è la relazione tra l’esecutrice e l’artista a creare un cortocircuito vitale, nel confronto tra le proprie radici e la scelta di accogliere gli stimoli del vecchio continente. Eriko racconta ad una platea attenta frammenti della propria vita, introducendo un percorso quasi terapeutico che si confronterà con alcuni amici e altri artisti da cui assorbire la relazione con il mondo, attraverso l’espressione della propria arte.

Ogni scheggia di vita trova un corrispettivo drammatizzato nell’apertura totale della forma concerto, attraversata da continue invenzioni performative, dallo scambio attivo tra esecuzione e teatro, quest’ultimo condotto sul crinale dell’espressionismo e della cultura giapponese.

La massa fisica da forgiare più di quella strettamente sonora, si manifesta nel confronto diretto tra lo strumento e le modalità per suonarlo. Oltre alle sessioni di piano trattato è la torsione o la mutazione del corpo quella che Eriko antepone, quasi per distruggere tutte le regole posturali consentite dall’apparato concertistico, con una furibonda deformazione della grazia, a prescindere dal repertorio.

La scelta dei brani rimane quindi un gradino sotto rispetto alla necessità di farli propri con un’interpretazione che sia vitale. La riscrittura passa però dalla percezione corporea e dalla capacità di trasformare il suono attraverso una componente prima fisica, poi potentemente visiva.

Eriko percuote i tasti con un guantone da boxe, suona un lacerto di musica contemporanea afferrando due palle da tennis, veste i panni di un cigno per poi strapparseli dolorosamente dalle mani e dalle braccia, dopo averne celebrato la morte con la musica di Camille Saint-Saëns, suona il piano distesa per terra, torcendo le mani in una posizione forzata per compromettere l’esecuzione e accentuare lo spasmo, la possessione che precede la formazione stessa della narrazione armonica.

I suoi interlocutori sono completamente dentro oppure traumaticamente fuori dallo schema entro il quale ha deciso di far brillare una mina.
Ramona Macho, performer en travesti noto con il nome di Cock Madame utilizzato per un noto talent Danese, con il quale si intrattiene sul significato dell’amore come continuo rispecchiamento, la ballerina Sayo Shiba, il cui fisico non risponde più agli stimoli di un tempo.
Entrambi agevolano la ricerca di Eriko che sembra assorbirne gli aspetti interiori attraverso una prepotente visualizzazione del gesto, della messa in scena e dei dettagli teatrali.

Fusione di stili ed elementi che Makimura riesce a capitalizzare con uno spettacolo al contempo distante, in termini formali, ma sempre più vicino alle vibrazioni del pubblico, al quale chiede più volte una partecipazione mediata, ma assolutamente vissuta.

Jannik Splidsboel lascia campo ad Eriko e alla sua capacità di allestire narrazioni complesse e ferocemente libere. La semplicità dell’ordito narrativo sembra contrapporre i frammenti performativi ad altri più confessionali che assumono un ruolo apparentemente didascalico.

In realtà ci sono numerose e sottili decostruzioni che consentono di comprendere la prassi di Eriko nel suo farsi. L’esempio più emozionante è l’utilizzo di un secchio di biglie di plastica, improvvisamente rovesciate nella cassa armonica del pianoforte a coda, per trattare il suono durante l’esecuzione. Gioco che assume consistenza intima vicina a quelli di John Cage, quando a fine concerto Eriko apre le biglie insieme ad amici e assistenti, per tirar fuori una serie di piccole strisce di carta.

Sui foglietti sono vergate le sensazioni fulminee scritte probabilmente dal pubblico. Cut up di impressioni anche grafiche che vengono disposte sopra un supporto rettangolare per ricreare il senso stesso dell’esecuzione appena vista.

Per quanto il privato di Eriko sembri quasi sempre regolato da una sotterranea energia orientata al controllo, Splidsboel fa emergere l’aspetto combinatorio della sua arte, anche quando fa coincidere l’incontro con gli anziani genitori insieme ad un servizio per i media giapponesi. Un ritorno a casa apparentemente sotto il segno della tradizione più composta. Eriko rimane sola, senza pubblico, a sperimentare il grandpiano degli studi per eseguire il Notturno N. 2 Op. 27 di Chopin. L’incessante autogenerazione armonica della composizione, apre uno spazio interiore che dissolve ogni necessità rappresentativa. Lo spazio vuoto, il suono e soprattutto il volto di Eriko che traduce lo scavo interiore dello specchio sonoro. 

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f20000″ class=”” size=””]Being Eriko, dopo aver debuttato in anteprima mondiale al CPH:DOX di Copenaghen dove si è aggiudicato il Nordic:DOX Award, sarà presentato il prossimo 9 giugno in anteprima al 16° Biografilm Festival, nella sezione Art & Music, in programma dal 5 al 15 giugno in streaming gratuito. [/perfectpullquote]

 

 

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