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Being Impossible (Yo Imposible) di Patricia Ortega: la recensione

Essere impossibili, eccedenti. Essere intersessuali. Ma "Yo Imposible" non è semplicemente la storia di un percorso identitario emerso, scoperto e scelto, supera presto questo riconoscimento progressivo con il disvelamento di una dimensione che precede orientamento e genere. Sul bel film di Patricia Ortega

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Patricia Ortega torna a girare a sei anni di distanza da “El Regreso” e torna ad esaminare le ragioni di una violenta rimozione. Da una delle pagine più cruente della storia latino-americana recente, al racconto intimo di Ariel (Lucia Bedoya), giovane donna venezuelana che attraverso la sofferenza del proprio corpo, comincia a percepire l’identità di genere come costruzione sociale imposta. Il dolore e il sangue dopo il primo rapporto sessuale e le continue fitte all’altezza del ventre, non vengono mitigate dalla routine che Ariel vive ogni giorno. Mentre lavora come sarta in un’azienda di sole donne, deve accudire la madre malata (Maria Elena Duque), il cui occhio autoritario non arretra di un passo, nonostante le cure pazienti e amorevoli ricevute.

L’unico specialista a cui Ariel può rivolgersi è la dottoressa che l’ha vista nascere, come se non le fosse consentito uscire da un terribile anello di relazioni costituito dallo scambio continuo tra famiglia e società. Il persistente dolore che spacca in due il corpo di Ariel, viene diagnosticato come una forma di stenosi e affrontato con il ricorso ad un dolorosissimo divaricatore. Un dildo di enormi proporzioni che Ariel deve inserire nella vagina per eliminare progressivamente qualsiasi sintomo considerato anomalo.

Patricia Ortega frammenta la visione sin dall’inizio, interrogando la formazione identitaria della giovane donna con il ricorso insistito ai riflessi, agli specchi, ai tagli dell’inquadratura che aprono sempre altre simmetrie rispetto alle possibilità dello sguardo. Oltre al dolore fisico di Ariel, ciò che mette in dubbio la narrazione al potere, è l’improvviso emergere di un’altra visione che frantuma il proprio percepirsi nel mondo. Da una parte le tracce di un cinema che cerca instabilità percettiva nella relazione tra corpo e riflesso, dall’altra un’emergente forza fisica che erompe dallo spazio necessario lasciato all’interpretazione di una straordinaria Lucia Bedoya, corpo afflitto e allo stesso tempo animato da incredibile forza.

Tutto quello che Ariel è costretta a vivere, inclusi i dolorosi rapporti sessuali con il suo ragazzo, collide con la nascita di pulsioni e desideri che sfuggono dal ruolo assegnatole.
L’attrazione ricambiata per una collega e la conseguente ostilità dell’ambiente lavorativo nel suo complesso, salderà definitivamente le idee della madre con quelle su cui è fondata la società cattolica venezuelana.

Ma “Yo Imposible” non è semplicemente la storia di un percorso identitario emerso, scoperto e scelto, supera presto questo riconoscimento progressivo con il disvelamento di una dimensione che precede orientamento e genere.

Patricia Ortega continua a frammentare il racconto con altre forme autoriflessive, più esplicite rispetto a quelle che introducono il film. Lo schermo LCD di una videocamera accesa inquadra una serie di volti; testimonianze che di tanto in tanto ritornano, legate a chi ha vissuto lo stigma di non poter essere collocato né riconosciuto. Si avverte il peso irreparabile della discriminazione attraverso le modalità con cui i corpi filmati restituiscono i segni indicibili della sofferenza, dilatando la risoluzione di una risposta intimamente connessa alla storia di Ariel, non tanto per alimentare artificialmente le qualità tensive del racconto, ma per lavorare lentamente su una necessaria stratificazione identitaria, capace di condurre lo spettatore nello stesso luogo in cui arriverà la protagonista. Dalla patologizzazione di una condizione sconosciuta all’agnizione dell’intersessualità intercorre un lessico famigliare improvvisamente illuminato dalla luce sinistra dell’abuso.
L’intervento subito da Ariel durante l’infanzia è un ricordo rimosso, ma lascia dietro di se i segni di una mutilazione violenta, la normalizzazione di un corpo perpetrata dalla paura e dall’intolleranza di un’intera società.

“El Regreso” recuperava le tracce di un gruppo di sopravvissuti al massacro dei Wayuu e in un modo non dissimile, “Yo imposible”, attiva la prassi di una conoscenza situata, in grado di porre alcuni interrogativi sul radicamento di quella logica binaria che definisce e costruisce l’identità di genere, all’interno di una società culturalmente autoritaria. Essere impossibili, eccedenti, fuori dal sistema delle identità sessuali dominanti, colloca questi testimoni nella stessa area di marginalizzazione abitata dai Wayuu.

Patricia Ortega, come ha raccontato in una recente intervista, è arrivata ad Ariel attraverso un processo di riconoscimento personale di questa “impossibilità” di esistere secondo norma. Un iter molto diverso nella sostanza da quello della protagonista del suo film, ma assolutamente vicino nell’anelito verso la libertà. La libertà di scegliere.

Yo Imposible di Patricia Ortega – Trailer ufficiale

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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