giovedì, Marzo 28, 2024

Belluscone: una storia siciliana – di Franco Maresco: la recensione

I segni dell’opera di Franco Maresco, con o senza l’antico sodale Daniele Ciprì, sono quelli della tragedia. Una tragedia talmente esasperata, dolorosa e accecante da farsi buffa, ridicola, grottesca. Una tragedia che reca in se il peso della classicità (greca antica), quella di cui è pregna quella cultura siciliana di cui il suo lavoro è da sempre al contempo tesi ed antitesi, per stagliarsi violentemente aldilà dell’apocalisse: sia quando questa stessa veniva sistematicamente riprodotta nei quadri iper(sur)reali di Cinico TV, Lo Zio Di Brooklyn e Totò Che Visse Due Volte; sia quando essa sublima in una ricerca tanto attenta, lucida, chirurgica, quanto spietata e incompromissoria della sua realtà contingente. Il medesimo sguardo che informa anche l’ultima parte di questa ideale trilogia sull’alterità della visione; sull’affermazione della realtà attraverso la sua negazione; sulla trinacria come polo accentratore delle dinamiche del mondo, iniziata con Il Ritorno Di Cagliostro e proseguita con la prima opera in solitaria dell’invisibile, ancorché splendido, Io Sono Tony Scott, col quale condivide la stessa forma (pseudo, para) documentaria già sperimentata con intenti ed esiti differenti in Come Inguaiammo Il Cinema Italiano.

Belluscone è un lavoro complesso, stratificato; un’ispezione sottile del tessuto sociale che, partendo dalla visione siculo, anzi panormocentrica, del suo autore, si allarga sino ad interessare la nazione intera: un’indagine condotta, pasolinianamente de visu, nei regressi più oscuri e controversi dell’incultura contemporanea. Indagine ossimorica che muta continuamente se stessa sino a divenire diario privato e confessione pubblica; saggio di strutturalismo marxista e cabaret dell’assurdo; metacinema e mockumentary (“per usare un’espressione dei nostri giorni”); racconto minimo ed universale. Ma è anche, e forse soprattutto, l’apologo personale sulla mitopoiesi del fallimento; sull’eroicità delle cause invincibili. Sulla perdita di sé in rapporto alla fine della storia, al malessere sociale ed antisociale di un territorio battuto da questo popolo siciliano; questo popolo di uomini singoli, storicamente diviso; storicamente incapace di farsi forza unica; storicamente condannato ad un’arretratezza (economica, civica) che collide vistosamente con la sua straordinaria millenaria cultura; ideale riferimento per quella partitocrazia liberale, individualista, veterocattolica, che in esso vede da sempre il perfetto luogo per il proprio radicamento, facendone termometro delle variabili politiche del resto del Paese (del continente) da sempre.

E’ qui che la Casa Delle Libertà raggiunge, con la sua proposta falsa e populista, a rasentare il 100%: dove la modestia sociale produce l’errata necessità di un riferimento forte, di una guida incrollabile, da venerare con lo stesso trasporto idolatrico rivolto alle statue di Padre Pio di cui sono costellate le periferie del capoluogo siciliano (poste con dubbio interesse dai consigli di quartiere di centrodestra) ma talmente distante, assente, che il nome non riesce neanche ad essere pronunciato correttamente. E’ questo il contesto dove fiorisce la microcriminalità, la bassa manovalanza. La mafia in sé e per sé, che allunga le sue spire tra le maglie di una società misera, chiusa su se stessa, che si autoalimenta dei suoi stessi miti, delle sue stesse micro, infime, abitudini (la fuitina). Un contesto che assume e deforma gli stimoli della società overground, riformulandoli, deformandoli o amplificandoli a dismisura. La società povera della suburra, del sottoproletariato urbano, che trova come unici suoi cantori quei cosiddetti neomelodici, del quale mondo il film è anche originale e spietata disamina.

Virando a 360°, infatti, Maresco riparte da qui, da un ambiente da lui conosciuto e battuto (forse, in qualche misura, amato e/o sicuramente odiato) da sempre, ricollocando la sua attenzione alla fonte originaria del consenso berlusconiano, laddove questi trova linfa e forza. Unendo ad Uroboro incipit ed explicit, sgranando un rosario di facce e facciacce, nomi tragicamente noti (Bontate, Lima, Ciancimino, ecc.) ed eroi del volgo (Ricciardi); mettendo insieme, in un helzapoppin tanto colorato quanto malevolo ed inquietante, organizzatori di feste di piazza dalla coscienza non proprio di bucato (l’inconsapevole protagonista Ciccio Marra), Ficarra e Picone (trasversali traits d’union tra mondi paralleli) e persino il mammasantissima Dell’Utri (sul trono, in uno degli episodi più tristemente improbabili e misteriosi). Il tutto al suono dell’orripilante motivetto, dal titolo inequivocabile e drammatico di Vorrei Conoscere Berlusconi (dietro il quale c’è un universo miserrimo e disperato che s’illude di un riscatto per contagio magico), che percorre praticamente tutto il film.

E così, tradendo la nota riservatezza che lo caratterizza, Maresco si espone, si svela, mettendosi in scena attraverso la propria stessa assenza: alla fine è lui il vero convitato di pietra, più dell’eponimo cavaliere. E’ attorno alla ricostruzione del progetto abortito del film inchiesta sui rapporti tra Berlusca e la Sicilia che si sviluppa (o forse sarebbe meglio dire si avviluppa) un racconto in seconda persona, che vede un Sanguinetti hard boiled mettersi fisicamente sui passi del regista, ritiratosi, nascostosi, resosi introvabile, in seguito ad un’autentica, profonda, crisi depressiva. In un puzzle di elementi compositi, disparati, non sempre facilmente (ma alla fine sempre) ricollegabili tra loro, che spingendo i propri limiti oltre la visione, oltre l’investigazione, oltre il reportage, rivela la reale natura di un lavoro a tesi.

Tragico, nella sua profonda lucidità (la chiusura su Renzi ad Amici: la fine di una sinistra che si auto termina, che si autocondanna alla minorità culturale); amaro, nel congiungere il particolare (i neomelodici, i vicoli di Palermo) ed il macroscopico (i legami tra mafia e politica nazionale, le stragi) venendone, inesorabilmente, a capo; disperante, nell’osservazione di una natura umana avvolta su stessa, condannata alla dimenticanza perpetua, alla coercizione a ripetere (i ragazzi bene intervistati in coda).
Su tutto si staglia la forte, persino feroce, contraddittoria ma vivida, forse anche rassegnata, ammissione di sicilianità (gli accenti mai celati, il dialetto esposto in tutta la sua brusca schiettezza) : quello stato dell’essere che nessun Berlusconi (dicono siciliano d’elezione), se pure solo lo volesse, potrà mai penetrare fino in fondo, perché probabilmente incomprensibile da chiunque aldilà dello stretto; che non si acquisisce per numeri. Perché, malgrado tutto, siciliani si nasce, non si diventa. Ed io lo nacqui, modestamente (?).

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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