sabato, Giugno 14, 2025

Death does not exist di Félix Dufour-Laperrière: recensione, Cannes 78

Archipel era la summa del lavoro fino a quel momento sviluppato da Félix Dufour-Laperrière, per l’imponente impegno realizzativo e la polimorfia estetica impiegata come morfologia plurale di quelle isole immaginarie al largo del Québec. Nel nuovo Death does not exist, il “paese fatto di tutti i paesi perduti”, si trasforma radicalmente in un territorio interiore, dove politica e identità vengono comunque sollecitate, a partire dalla collocazione dell’individuo sull’orlo di una realtà al collasso. Visto a Cannes 2025 nella sezione Quinzaine des cinéastes. La recensione

Dopo la parentesi produttiva per il bel film di Miryam Charles, opera di reinvenzione poetica dei materiali storici e personali nel solco del cinema diasporico quebecchese sospeso tra identità apolidi, Félix Dufour-Laperrière continua ad espandere i confini del proprio arcipelago segnico, fatto di linguaggi che sondano i confini tra il cinema di poesia, il saggio antropologico e le cartografie impossibili di un territorio definito a partire dell’individuazione di fratture e differenze.

Cinema d’animazione puro, se con il termine si intende la tensione metamorfica tra forme eterogenee del linguaggio, che continuano a costituire lo scheletro dei suoi film, anche quando il regista canadese ha abbandonato altri innesti visuali, come il found footage, le manipolazioni ottiche dei supporti e i movimenti della rotoscopia.

La forma del racconto che esplode e segue la morfologia trasformativa del frammento, è un processo linguistico di formazione, che si basa sulla derivazione, decostruzione e ricomposizione del segno grafico in una direzione libera e violenta, tanto da situare le opere del regista sulla linea improvvisa dell’esplosione e della deriva.

Delineare identità soggettive precise, relazioni tra corpi e individui, è impossibile nel cinema di Dufour-Laperrière, non perché siano elementi assenti, ma per l’astrazione radicale a cui sono sottoposti che privilegia il detrito come propulsore di mille narrazioni possibili.

Il centro non è tanto la negazione della realtà, quanto la sua rappresentabilità attraverso la scomposizione, per mettere in crisi lo statuto stesso dell’immagine e definire parole e sintagmi come unità insufficienti, rispetto alla forma arcipelagica della poesia.

Esilio, separazione, nomadismo, fragilità identitarie, sono alcuni dei motivi che animano il cinema del canadese, spesso attraversato da istanze plurilinguistiche, dove l’identità stessa può dissolversi nel transito. Un cinema quindi anche politico, ma affrontato da una prospettiva esistenziale dove la tensione tra privato e collettivo può essere indagata solo a partire da immagini della soglia, la cui definizione appunto si basa sull’apertura o sull’intersezione delle cornici.

Un discorso che infrange il dispositivo stesso e lo ricompone attraverso il salto temporale, l’ellisse tra assenza e presenza e l’utilizzo della voce come frammento tra altri, in controtendenza rispetto alle strategie dell’animazione corrente e più vicino alla storia del cinema d’animazione canadese intesa come ricerca sulla forma.

Rispetto a quella tendenza, la variazione del segno grafico in una direzione sinestetica è per Dufour-Laperrière solo un elemento delle imponenti cartografie immaginarie che costituiscono l’itinerario del suo cinema.

Se Archipel allora ha rappresentato la summa del suo lavoro precedente, per l’imponente impegno realizzativo e la polimorfia estetica impiegata come morfologia plurale di quelle isole immaginarie al largo del Québec, nel nuovo Death does not exist, il “paese fatto di tutti i paesi perduti”, si trasforma radicalmente in un territorio interiore, dove politica e identità vengono comunque sollecitate, a partire dalla collocazione dell’individuo sull’orlo di una realtà al collasso.

L’anarchia cartografica del film precedente diventa azione e movimento, non solo come dissidio tra necessità militanti e strumenti possibili per esercitarla, ma per il flusso energetico che attraversa i cicli della natura, nell’irresolutezza tra orrore e meraviglia, distruzione e genesi.
La morte non esiste dove l’immagine resiste, e questo avviene attraverso più persistenze. Quella della memoria, della ripetibilità di un evento nella conservazione della stessa ed infine attraverso la capacità generativa del gesto.

Per Dufour-Laperrière il cinema è un modo per “interrogare le tracce”. La memoria per il regista canadese quindi non ha il valore che gli assegna certo cinema, come dispositivo di ricostruzione degli eventi o di conservazione del portato politico-ideologico, ma è la scia residuale di una realtà dissoltasi nel niente.

Ecco perché alla base del suo nuovo film c’è l’idea della perdita e del lutto, elaborato o meno, come elegia della scomparsa e invito alla condivisione di un frammento di realtà, quella più semplice, quotidiana, che è possibile individualmente vivere e sopportare.

Il film è introdotto da un frammento dove un gruppo di giovani militanti sul limitare della foresta scelgono di attaccare una villa costituita in parte dalle vetrate di una grande serra. L’obiettivo, del tutto indefinito, ma già inscritto nei codici di sparizione della natura, è fermare il disastro, punire la ricchezza iniqua, sovvertire lo status quo.

Nella violenta sparatoria che descrive l’assalto, Hélène a un certo punto arretra di fronte alla morte dei compagni e al ferimento letale di Mark, il compagno.
Il suo retrocedere è un letterale assorbimento nello spazio liminale della flora, segmento di terra che separa non solo la dimensione civile, ma anche quella temporale.

Viaggio nella psiche o nella memoria, quello di Hélène è un tentativo di riconsiderazione della militanza tra “l’impossibilità della violenza” e l’inaccettabilità dello stato delle cose.
Al regista canadese non interessa definire i dettagli della lotta, quanto sondare l’interiorità di una generazione a confronto con le precedenti.

Il bosco, regno di violenza e di stupore, diventa espressione pura del movimento, come quello che anima i coyote mentre fanno a brandelli una pecora. In questo spazio di confine, tutto è concepibile, anche esercitare poteri di modifica dell’assetto naturale. Ripercorrere le conseguenze delle proprie scelte, alla ricerca di una seconda possibilità, è l’innesco per piegare il corso del tempo e abbandonarsi alle possibilità trasmutanti di una natura che esplode.

Ad eccezione dei frammenti che aprono e chiudono il film o dei ricordi che sfumano come scie fantasmatiche, dissolvendo progressivamente il tratto fino a scomparire nella consistenza pittorica della materia-colore, Death Does not Exist è una rappresentazione del movimento palindromo tra vita e morte, una gemmazione di forme che nascono, si fondono, rinascono mentre muoiono, esplodono in un’apocalisse di segni che cambia nel suo opposto in ogni istante e non si sedimenta mai nell’interpretazione strettamente figurale dell’immagine.

Cosa vediamo per esempio, quando un grande e mostruoso coyote emerge con il corpo infestato da metastasi floreali, lo sappiamo fino a un certo punto, così come le statue nel giardino della grande padrona, che improvvisamente si stagliano gigantesche in un abbraccio vitale di amore, morte e rinascita, rappresentano segni fragili, che ci invitano a non assegnare un significato radicato.

Eppure le radici sono essenziali per Dufour-Laperrière, in un mondo sospeso tra brutale violenza e trasformazione. Senza mai definire didascalicamente ragioni politiche e scientifiche del cambiamento climatico, questa opera radicalmente astratta si immerge con un coraggio mai visto nel flusso del cambiamento. Questo si porta dietro segni che possono essere distruttivi e costruttivi, ma ne accetta il susseguirsi distruggendo l’architettura dell’osservazione e penetrando il cuore amorale e vivificante del transito tra individuo, spazio sociale e indifferenziazione della natura.

In questo vortice, commuove il ritorno all’unità minima del ricordo, alla ricostruzione degli affetti più cari attraverso la persistenza di oggetti deperibili, ma che sopravvivono spesso agli individui.
Questa nuova cartografia interiore, fatta di un disco, un grammofono, una mela, un libro, un cumulo di smartphone bruciati, simbolo che tra l’altro riprende l’incipit del film quasi come una dichiarazione di intenti, un volatile morto, è tutto quello che Hélène può conservare e condividere. Il detrito di mondo che puoi portare ancora con te.

Ecco che di detriti è costituito, tecnicamente, il film stesso, in un avvitamento specifico tra segno, parola e supporto. Disegnato interamente a mano su tablet con dodici disegni al secondo, ricrea un movimento incerto, lontano dalla precisione della rotoscopia. La sperimentazione sul colore diventa centrale, nel transito evidente dai segni inchiostrati del bozzetto, al colore che improvvisamente occupa i corpi, dalla quadricromia al florilegio, dall’idea in nuce alla sua esplosione. Questo movimento non è teleologico, ma procede avanti e torna indietro, fino alla riassunzione dell’essenzialità del tratto, come radice da cui tutto si genera e a cui tutto ritorna.

Death does not exist di Félix Dufour-Laperrière (La mort n’existe pas – animazione – Canada – Francia, 2025 – 72 min)
Sceneggiatura: Félix Dufour-Laperrière
Musica: Jean L’Appeau

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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