Home festivalcinema Berlinale-65 El club di Pablo Larrain – Berlino 65 – Concorso

El club di Pablo Larrain – Berlino 65 – Concorso

Il cuore nero di “El Club” viene eviscerato dal corpo marcio di una nazione per come la descrivono i personaggi creati da Roberto Bolaño, e la Chiesa del nuovo film di Pablo Larrain non è così diversa dal pensiero di padre Sebastián Urrutia Lacroix, il sacerdote dell’Opus Dei che in “Notturno Cileno” vive dentro una realtà allucinatoria dove a sovrapporsi alla connivenza con il regime di Pinochet è l’aspirazione verso la santità. Non è semplicemente una storia politica e criminale quella raccontata dallo scrittore cileno, quanto una “tempesta di merda” che diventa pensiero collettivo, una malattia che colpisce l’intera coscienza nazionale dove dolore e orrore sono ormai i tratti inscindibili di una società che non riesce a risvegliarsi dal coma profondo.

Tutta la tensione autodistruttiva di Post Mortem dalla struttura ospedaliera si trasferisce in “El Club” dentro uno spazio ugualmente secluso, quello circoscritto di una piccola comunità di religiosi accuditi da Sorella Monica (Antonia Zegers), dediti alla preghiera quotidiana e alle scommesse sui levrieri da competizione. Quando ai quattro preti se ne aggiungerà un quinto, padre Lazcano (Jose Soza), ad accoglierlo all’esterno della piccola struttura arriverà Sandokan (Roberto Farias), un disadattato che alluderà con insistenza alle molestie subite in gioventù dal nuovo sacerdote. Spinto al suicidio dagli ospiti della casa, Lazcano si sparerà un colpo in testa. Per indagare sulla vicenda il vaticano invierà un giovane religioso, padre Garcia (Marcel Alonso); lo scopo è quello di disperdere la piccola comunità, nascondere i loro crimini e chiudere la casa.

È solo l’inizio di una lenta discesa agli inferi che Larrain sviluppa con un procedimento apparentemente legato ad una detection induttiva, accumulando gli interrogatori di Garcia con i preti della comunità; ma invece di allargare dal dettaglio alla comprensione della verità separando il bene dal male, emergerà un sistema di relazioni molto più complesso e sostenuto dal silenzio radicato in una forma primigenia di omissione.

Post Mortem si concludeva con un’inumazione che confondeva la dimensione politica con la sfera amorosa, ed è la stessa relazione che in “El club” passa senza soluzione di continuità dall’orrore alla pietà, perché ciò che rende il nuovo film di Larrain un’opera dalla forza sconvolgente, è il continuo scivolamento dei carnefici nella posizione delle vittime, in un mutuo rispecchiamento che perde progressivamente le tracce originarie.

Tutti i personaggi di “El Club” sembrano attraversati dalla stessa perversione e dalla stessa ansia di espiazione, dove la necessità di purificarsi nel silenzio converge con quella rimozione che per Bolaño è stata acquisita da tutta la società cilena.

Se la pancia non mi facesse così male e se non fossi così ubriaco mi confesserei in questo stesso momento, oppure la trascinerei in bagno e la inculerei una volta per tutte“;  è un frammento di uno dei dialoghi più potenti tra padre Lacroix e l’intellettuale Farwell contenuti in “Notturno Cileno”, e Larrain sembra acquisirne il senso più profondo attraverso un cinema durissimo e viscerale che mentre si serve della parola come una sequenza ininterrotta di aporie e motti di spirito, conduce il gesto e l’immagine altrove, basta pensare ai continui slittamenti orientati a disinnescare la convergenza tipica del racconto corale, spingendoci verso il riconoscimento di un sentimento di orrore e rifiuto, confuso con l’improvvisa pietà per gli ingiusti; mentre Sandokan sembra non poter uscire dal ruolo di agnello sacrificale, Sorella Monica sopprime ciò che più ama, e con un rovesciamento ulteriore, il teatro della violenza più insopportabile sarà di nuovo cancellato con il servizio estremo della lavanda dei piedi.

Oltre ai colori desaturati di una fotografia laida curata da Sergio Armstrong, sodale collaboratore di Larrain e tra i più importanti del cinema cileno degli ultimi anni, “El Club” sembra sfruttare in alcune sequenze una quadricromia sfalsata, sdoppiamento percettivo che a tratti allude senza sottolinearlo a quello stato di sospensione allucinatoria che affligge questo mondo a parte così come la collettività tutta.

Larrain dissemina ovviamente il film di riferimenti specifici, non solo quelli che assimilano “la nueva Iglesia” al personaggio di Padre Garcia, un giovane e bellissimo religioso con il corpo tatuato, ma anche alcuni episodi che hanno coinvolto la chiesa cilena nel decennio tra il settanta e l’ottanta, e relativi alla rete di adozioni forzate legata alla sottrazione violenta di alcuni bambini dalle madri biologiche; ma non è certo su questi aspetti che “El Club” si ferma, Larrain evita con grande coraggio di costruire un J’accuse lineare, preferendo, come in tutto il suo cinema, elaborare l’autopsia di un processo identitario e antropologico che non ha altre caratteristiche se non quelle di una riscrittura della storia di un paese annientato dall’oblio e da un atroce e colpevole sonnanbulismo interiore.

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