giovedì, Novembre 14, 2024

Favolacce di Fabio e Damiano D’Innocenzo – Berlinale 70 – Concorso: recensione

I gemelli D’Innocenzo assestano un pugno nello stomaco riuscitissimo e corale.

Ascesa verticale per i talentuosi fratelli D’Innocenzo, che dopo il botto alla sezione Panorama della Berlinale 2018 con La terra dell’abbastanza, e dopo aver scritto Dogman insieme a Garrone, fanno ritorno al festival tedesco nella sezione numero uno – e intanto stanno già lavorando al loro primo film americano.

La sceneggiatura di Favolacce è vecchia di dodici anni, quando Fabio e Damiano di anni ne avevano diciannove. In conferenza stampa hanno ammesso di essere arrivati a questo film agli sgoccioli, prima cioè di diventare troppo adulti per raccontare una parabola atroce popolata da bambini.

Intanto bisogna sgombrare il campo da un’ambiguità: il film è corale ma non è a episodi, e le “favolacce” sono in realtà un’unica Bad Tale ambientata nei sobborghi senza nome di Roma, tanto sobborghi che lo Spinaceto di morettiana memoria, più volte citato, ha la valenza di un passo avanti verso la buona società.

Il racconto segue quattro nuclei familiari ed è ispirato, come da monologo iniziale, a un diario scritto da una bambina a penna verde, “una storia vera; la storia vera è ispirata a una storia falsa; la storia falsa non è molto ispirata”. Un bel nodo gordiano che gli eventi tagliano via via con l’accetta.

Senza entrare in dettagli che rischiano di guastare lo stupore, basti dire che il livello di violenza – psicologica e non – e di situazioni dal taglio sessuale che vedono coinvolti minori ha pochi precedenti nella storia del cinema italiano.

La critica anglofona ha citato Solondz come filtro per inquadrare questo film coraggioso e lancinante. Si potrebbe arrivare ad Harmony Korine e a Sweet Movie (1974) di Makavejev.

Lo sguardo degli autori è volutamente abrasivo, ma la tragedia che viene raccontata non vuole strappare lacrime né risate ciniche.

C’è una freddezza ballardiana in questa apocalisse di periferia, un equilibrio dei dettagli e della mostruosità che ricorda, pur non mutuandone la trama, il romanzo “Un gioco da ragazzi” (1988). Un percorso che, a quanto pare, proseguirà con “Travel Well, Kamikaze”, ora in postproduzione.

La Passacaglia della vita che chiude il film e compare nel trailer è una colonna sonora perfetta per questa favola suburbana dalla struttura a loop che sarebbe piaciuta a Sergio Citti e a Ettore Scola, ma che soprattutto brilla di luce propria. Una luce che fa male.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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