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Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh: recensione

Senza perdere di vista quella commistione tra cinismo, motto di spirito, violenza e ingenuità che caratterizza la struttura emotiva dei suoi personaggi in cerca di un riscatto dalla prigione dell'esistenza, ne "Gli spiriti dell'Isola" Martin McDonagh concentra queste qualità entro l'apparente protezione della cornice insulare, definendo attraverso simmetrie e opposizioni, una personale e amarissima storia d'Irlanda.

È il teatro di Martin McDonagh la linfa principale che da vita ai personaggi di The Banshees of Inisherin. L’Irlanda rurale popolata di persone comuni, dove le relazioni famigliari sono regolate da un fatalismo violento e minacciate dall’orrore della solitudine, è una costante dei suoi lavori per la scena, a partire da The Beauty Queen of Leenane, racconto crudele di abiezione filiale che con modalità combinatorie, viene disseminato nel nuovo film, assegnando ad ogni personaggio quelle caratteristiche che animavano la controversa figura di Maureen Folan e l’umanità dolente che le brulicava intorno.

Il regista irlandese torna a lavorare con Brendan Gleeson e Colin Farrell dopo quindici anni e attiva ancora una volta quel legame di fratellanza mascolina e tormentata, in uno scenario più familiare del Belgio, ma altrettanto determinante nello stabilire risonanze tra la morfologia del paesaggio e i movimenti interiori.

Il tempo è quello insulare, spazio tra realtà e virtualità, dove la ripetizione dei gesti ne congela lo scorrere, ed un’improvvisa infrazione della cronometria può determinare la distruzione della comunità che si è affidata a quella scansione.

McDonagh ha ben presente l’idea di un’isola come luogo dell’immaginario inscritto in una dimensione parallela e costruisce una drammaturgia dello spazio che gli serve per descrivere un movimento circolare, desunto dalle architetture narrative popolari.

Senza perdere di vista quella commistione tra cinismo, motto di spirito, violenza e ingenuità che caratterizza la struttura emotiva dei suoi personaggi in cerca di un riscatto dalla prigione dell’esistenza, ne concentra le qualità entro l’apparente protezione della cornice geografica, definendo attraverso simmetrie e opposizioni, una personale e amarissima storia d’Irlanda.

Se nel film la guerra civile degli anni venti è un’eco d’artiglieria lontana, questa propaga un’onda che da aurale diventa visibile attraverso lo scontro tra Pádraic e Colm, i colori che distinguono le loro abitazioni, l’alienazione rispetto all’empatia, la diversa percezione del tempo quotidiano.

Il sogno unitario di Pádraic, risiede in un miraggio costante di incontaminata bellezza, legato alla relazione con gli animali, la regolarità dei suoi compiti, l’idea che ritmi della natura, spazio sociale e tempo personale coincidano senza alcun mutamento.

Colm, stanco di questa immobilità, ravvisa nelle attitudini dell’amico un’insopportabile prigionia vissuta nella virtualità dell’isola, incapace di evolversi e di lasciare una traccia fuori dai propri confini.

Sono già due irlande, definite attraverso la coscienza dei personaggi e che si contaminano e feriscono a vicenda. Tutte le figure di contorno che si muovono come magneti intorno a queste due direttrici, spezzano o consolidano i legami di filiazione con la terra, tanto da rappresentare più variazioni rispetto alle opposte simmetrie tracciate dai due uomini.

Siobhán vive anch’essa nel solco indicato dal fratello Pádraic, ma assorbe gradatamente i riflessi dell’individualismo di Colm, trasformandoli in un desiderio concreto di fuga da quel mondo dilaniato.

Il rifiuto del tempo insulare assume per Colm le caratteristiche di uno spleen Joyciano, quella paralisi che il grande scrittore irlandese descriveva come collasso di ogni illusione, capace di generare indefinita angoscia radicata nel presente e riflessa tra interiorità e l’identità politica del paese.

Bloccato in un tempo sospeso, con lo sguardo verso un orizzonte indefinibile, guarda nella direzione opposta rispetto alla circolarità rituale dell’amico, fino a smembrare le proprie mani mozzandosi le dita, per opporre il proprio martirio all’illusione bucolica e adolescenziale di Pádraic.

Ma non c’è giudizio scagliato contro i due, né contrapposizione binaria, perché nel ricorrere di gesti e movimenti, McDonagh li intrappola in una dinamica causale che genera morte e disastri a causa della stessa, divergente ostinazione.

Ogni azione innesca una conseguenza, sia per resistenza che attraverso la violazione dello spazio individuale e identitario.

Chi è fuori da uno scontro con le caratteristiche maligne dell’esercizio del potere e della sopraffazione, viene annientato, come gli animali e lo scemo del villaggio.
Dio non si preoccupa delle bestie, confermerà il sacerdote durante una delle confessioni di Colm, esse infatti vivono un tempo fuori dai cardini, accordato sulle esigenze umane e fuori dalla logica del conflitto.

Nel giocare con gli elementi della fiaba popolare, utilizzando il consueto sarcasmo nero, McDonagh stempera apparentemente la violenza e la crudezza della sua poetica, individuando un punctum dove grazia e orrore possano coincidere. Non è meno dirompente l’angoscia e il dolore nello spazio della commedia rurale, quando tutti gli elementi ritualistici di una realtà arcaica diventano precognizioni di morte, rovesciando i tempi rallentati di un buddy movie che si autonega senza poter avere luogo, proprio per l’infrazione di quel patto che ne codificherebbe il funzionamento.

Se l’affetto e l’improvvisa solidarietà per Pádraic da parte di Colm sopravvive in alcuni momenti di difficoltà, è solo come variante del libero arbitrio necessario per immaginarsi la propria morte e ristabilire la giusta distanza tra i due modi di concepire il passare del tempo.

L’illusione di una temporalità eternata nella circolarità insulare, continua a funzionare per Pádraic solo fino a quando il teatro quotidiano scandito da gesti e azioni precise, corrisponde in modo armonico e biunivoco alla sua commedia. La natura, l’improvvisa emersione del caso, i desideri inconfessabili degli abitanti dell’isola, i soprusi occultati, l’angoscia che rode l’anima, evidenziano al contrario un andamento disarmonico dove la trasfigurazione degli elementi ritualistici legati all’esperienza di una vita ancora arcaica, può spalancare una porta sull’abisso.

Oltre all’incarnazione figurale della tradizione assegnata all’inquietante e sagace Mrs. McCormick, la cui ieraticità che preconizza morte sembra una gustosa parodia di modelli Bergmaniani, gli spiriti dell’isola sono disseminati tra l’immutabilità dello scenario naturale e le energie dolenti di un’umanità contratta nella paralisi.

Su ciascuno di loro, dal prete della parrocchia al figlio demente del poliziotto locale, la fotografia di Ben Davis getta una luce mai riconciliata, come se anelassero alla vita con lo sguardo indirizzato oltre lo schermo, avendo vissuto a lungo nel mondo dei morti.

[Le foto dell’articolo sono state fornite da Ufficio Stampa Cristiana Caimmi & Co. S.r.l.]

Gli Spiriti dell’isola di Martin McDonagh (The Banshees of Inisherin, Irlanda, Usa GB, 2022 – 114 min)
Interpreti: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Kerry Condon, Barry Keoghan, Pat Shortt, Gary Lydon, Sheila Flitton, Bríd Ní Neachtain, Jon Kenny, Aaron Monaghan, David Pearse
Sceneggiatura: Martin McDonagh
Fotografia: Ben Davis
Montaggio: Mikkel E.G. Nielsen

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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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