venerdì, Luglio 11, 2025

Honeymoon di Zhanna Ozirna: recensione

Zhanna Ozirna, per il suo primo lungometraggio sceglie lo spazio domestico come teatro di presenze imperfette e informi, dove i traumi irrisolti e la dimensione interiore di una coppia si condensano e caricano di senso oggetti mai neutri. Taras e Olia, chiusi nel loro appartamento per l'improvvisa invasione dell'ucraina da parte della Federazione Russa, abitano un processo spettrale, alla ricerca di un superamento della soglia.

Durante la cena di benvenuto che Taras e Olia offrono ai loro amici, nel nuovo appartamento appena acquistato e collocato nel condominio di una piccola città vicino Kyiv, la conversazione salta dal desiderio euforico per una nuova vita, alla paura collettiva del futuro, con l’ombra minacciosa dell’invasione russa su vasta scala, ancora potenziale.

Tra gli argomenti di conversazione, Olia esplora alcuni aspetti del suo lavoro come scultrice e racconta agli ospiti l’ispirazione per una nuova mostra che dovrebbe essere allestita in Austria.
Il propellente creativo è il concetto di hantologie, neologismo coniato da Jacques Derrida per designare una curvatura temporale, dove il presente infestato dagli spettri del passato, minaccia dall’interno la definizione stessa di ontologia, aprendosi dai caratteri universali dell’ente a quella dimensione di transito che precede ciò che è, oppure prevede quello che potrebbe essere, nello spazio palindromo della possibilità.

Uno spettro che non è più oppure che non è ancora. Ritorna attraverso memorie collettive, ideologie, rimozioni della storia, oppure attiva la “nostalgia per il futuro”, quella per i desideri incompiuti e mai realizzati.

L’indicazione appare ai margini di una conversazione, piccolo frammento di sceneggiatura adattato per un breve passaggio dialogico, ma si configura come suggestivo aggancio teorico e metadiscorsivo per leggere gli elementi di una messa in scena tanto essenziale quanto ambiziosa.

Zhanna Ozirna, per il suo primo lungometraggio sceglie lo spazio domestico come teatro di presenze imperfette e informi, dove i traumi irrisolti e la dimensione interiore di una coppia si condensano e caricano di senso oggetti mai neutri.
L’abitare, sembra suggerirci l’autrice, non riguarda solo il presente, ma un processo spettrale dove il passato riemerge dalle scatole del trasloco ancora da aprire e il futuro rimane intrappolato nella rete delle esitazioni.

L’improvvisa invasione della Federazione Russa su territorio ucraino, coglie la coppia di sorpresa, durante le ore del sonno e la spinge verso una stagnazione temporale che stratifica desideri, paure e priorità di fronte ad una guerra che rimane fuori campo per tutto il film, premendo sull’equilibrio dell’immagine con ripetuti assalti aurali.

L’area della condivisione, come in altre esperienze di isolamento forzato, si contrae, diventa luogo del confronto, spazio del gioco, contenitore di paure atroci e dubbi indicibili.
In questa dimensione, Ozirna, autrice anche della sceneggiatura, concentra elementi storico-politici che caratterizzano e definiscono la storia della società ucraina dall’interno, verso la più recente percezione esterna da parte della collettività europea. Colloca infatti simmetricamente due contrasti opposti eppure convergenti. Il primo legato alla storia personale di Taras, figlio di padre russo che in una conversazione telefonica, chiede perentoriamente al figlio di scappare dal paese, con indicibile disprezzo e superiorità nei confronti dell’identità ucraina, tanto da definire non solo i confini del dramma personale di Taras, ma anche lo spirito coloniale di un invasore autolegittimato, nel linguaggio, nella postura e nelle azioni, da una cultura dell’esproprio e del saccheggio.

La seconda esperita da Olia nella conversazione con la sua gallerista austriaca, dalla quale emerge quel pacifismo pietista e passivo che sostituisce l’azione con la retorica caritatevole. Sono due momenti brevi, registrati con forza emotiva e umorale, ma che riescono a raccontare l’isolamento e la resilienza di una comunità, tra l’indifferenza europea e l’illegittimità violenta di un paese colonialista.

Questi due poli si moltiplicano nel rapporto tra interno ed esterno, contrazione delle proprie paure ed estensione del terrore, per cedere apparentemente al nichilismo involutivo di una scissione netta con il presente.

Chiusi in una prigione autoinflitta per non aver scelto la fuga immediata, Taras e Olia ripopolano lo spazio di ricordi, mobili disegnati e non completamente formati, piccole incomprensioni esacerbate dalla cattività.

Nascondersi determina improvvisamente un futuro bloccato nella spettralità, manto che avvolge gli ambienti filmati da Ozirna, congelati nella luce iperreale fotografata da Volodymyr Usyk, vicini per certi versi all’universo creativo di Gregory Crewdson, dove gli interni suburbani vengono abitati da assenze, eventi già accaduti o sul punto di materializzarsi.

La guerra stessa è una presenza inquietante, scandisce il tempo e lo piega al ritmo delle vibrazioni violente, con l’unico punto di fuga rappresentato da una grande finestra, costante anche nell’arte del fotografo statunitense di cui parlavo, e che rappresenta un’apertura metafisica apparente da cui promana una luce quasi sempre diurna, sovrapposta al costante senso di minaccia.

La casa diventa allora un luogo sospeso, oscillante tra ciò che non può più essere, il nido di sicurezze e progetti condivisi, riparo dal mondo e porto sicuro, e ciò che non è ancora, buco nero generato dal potere e dalla pervasività dell’orrore. Quando le microstorie si avvitano all’orizzonte negativo della Storia, con l’apice della violenza perpetrata sui civili, Taras e Olia sono costretti nella posizione dello spettatore passivo, una postura obbligata dentro al grembo che non può più partorirli, fuori dall’orizzonte del proprio paese.

Quell’ascolto obbligato e osceno, si riverbera sui loro corpi, sulle azioni minime e in particolare sul volto di Ira Nirsha, attrice praticamente esordiente, ma di incredibile densità plastica, capace di esprimere con gli occhi e una contrazione estrema dei tratti, il confine tra follia e rabbia. Il padre nostro blasfemo che improvvisamente pronuncia invece di chiedere grazia, ingiuria scagliata contro l’invasore, diventa calco negativo di una preghiera, contro lo spettro di Dio, come l’Ave Maria piena di merda di Chabrol. Un frammento di straordinaria catarsi rappresentativa nell’assenza coatta di azione, ma che con grande verità si avvicina al cuore nero di una guerra subita.

Vettori di spettri che non si vogliono lasciare andare, gli oggetti diventano improvvisamente una prigione. Il superamento dell’hantologie può avvenire solo con la capacità di oltrepassare la soglia, un’ontologia attiva che si smarchi dal nichilismo a cui ci condanna Derrida, ripensando la modalità in cui gli spettri ritornano oppure ci lasciano, con una spinta verso una nuova processualità attiva.

Ci aiuta Olga Bryukhovetska a ridefinire il concetto. Professoressa di studi culturali all’università di Kyiv e specialista di cinema e visual culture, nel suo bel saggio “European Spectres and Ukrainian Bodies, or What is Maidan?”, descrive lo spettro marxiano di Derrida, come un’opportunità, a patto possa insegnare ad una comunità spezzata il riconoscimento della propria identità tra due poli.

Maidan, che è il centro della sua ricerca, è evento formativo e performativo: costruisce, scolpisce, modella i corpi. La presenza di uno spettro, come quello del passato russo-sovietico che non rispetta i confini, stimola un processo attivo di formazione di un corpo politico che sceglie l’autodeterminazione e la modellazione di un futuro vivibile.

Fuggire dalla condanna, per Taras e soprattutto per Olia, artista che non riesce più ad autodefinirsi e a trovare un senso, significa rielaborare la minaccia spettrale del dominio, rappresentata come una vera e propria presenza terrifica in Honeymoon, con il gesto liberatorio della resistenza.

Mentre Klondike di Maryna Er Gorbach metteva al centro la casa come spazio intimo continuamente violato, sfondato e ricostruito con ostinazione, nella tensione insopprimibile del ritorno verso le proprie radici; la separazione di Taras e Olia dal nido dei loro sogni rimane inscritta nei puntini di sospensione di un futuro senza fine, ma è soprattutto immagine di lotta e attaccamento alla vita.

Honeymoon, montato dalla stessa Ozirna insieme a Philip Sotnychenko, regista dell’ottimo La Palisiada, è un’opera che dell’esordio ha tutto il coraggio laboratoriale, proprio nella fusione tra istanze narrative ed elementi di finzione che a tratti lambiscono i territori del cinema di genere, e la libertà sperimentale di elaborare la scomposizione della realtà, attraverso una radicale messa in abisso dello spazio scenico.

Il cinema ucraino degli ultimi anni, spesso ancorato alla prossimità del reale per ovvie difficoltà produttive legate all’opera di distruzione selvaggia della Federazione Russa, si è spesso interrogato sul ruolo del dispositivo cinematografico nella rappresentazione del conflitto.

Zhanna Ozirna affronta riflessioni simili, ma nel coraggioso connubio tra finzione e le caratteristiche di un cinema intimo ed empirico.
Rovesciando come un guanto le strategie del cinema diretto e tagliando fuori l’immagine della guerra, definita attraverso la sua irrapresentabilità, si interroga con rara intensità non solo sulla persistenza della morte e della minaccia nei territori occupati, ma anche sul ruolo di chi deve scegliere se osservare passivamente la morte al lavoro, oppure decidere per la vita, calandosi nella realtà urbana.
Noi, da questo lato dell’Europa, cosa stiamo facendo?

Honeymoon di Zhanna Ozirna (Medovyi Misiats, Ucraina 2024 – 84 min)
Interpreti: Ira Nirsha, Roman Lutskyi
Sceneggiatura: Zhanna Ozirna
Fotografia: Volodymyr Usyk
Montaggio: Zhanna Ozirna, Philip Sotnychenko
Musica: Anton Dehtiarov

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

ARTICOLI SIMILI

Voto

IN SINTESI

Zhanna Ozirna, per il suo primo lungometraggio sceglie lo spazio domestico come teatro di presenze imperfette e informi, dove i traumi irrisolti e la dimensione interiore di una coppia si condensano e caricano di senso oggetti mai neutri. Taras e Olia, chiusi nel loro appartamento per l'improvvisa invasione dell'ucraina da parte della Federazione Russa, abitano un processo spettrale, alla ricerca di un superamento della soglia.

CINEMA UCRAINO

Cinema Ucrainospot_img

INDIE-EYE SU YOUTUBE

Indie-eye Su Youtubespot_img

FESTIVAL

ECONTENT AWARD 2015

spot_img
Zhanna Ozirna, per il suo primo lungometraggio sceglie lo spazio domestico come teatro di presenze imperfette e informi, dove i traumi irrisolti e la dimensione interiore di una coppia si condensano e caricano di senso oggetti mai neutri. Taras e Olia, chiusi nel loro appartamento per l'improvvisa invasione dell'ucraina da parte della Federazione Russa, abitano un processo spettrale, alla ricerca di un superamento della soglia. Honeymoon di Zhanna Ozirna: recensione