sabato, Aprile 20, 2024

Il Cielo, l’Acqua e il Gatto. Il cinema secondo natura di Franco Piavoli, di Filippo Schillaci: recensione

L'ottima Artdigiland pubblica l'indispensabile volume scritto da Filippo Schillaci e dedicato al cinema di Franco Piavoli, affrontato a partire dai suoi primi corti degli anni sessanta, passando per il corpus filmografico dei lungometraggi, fino al progetto mai realizzato de "Il paradiso terrestre"

La quiete del giardino di casa, la natura domestica accordata con un movimento quasi orchestrato, il gatto Agostino che sonnecchia sulle ginocchia del padrone. Filippo Schillaci legge per la prima volta Il Paradiso terrestre di Franco Piavoli durante una notte d’estate, e avverte subito la mutazione aurale dell’ambiente; i grilli intermittenti e quasi scomparsi e una frammentarietà che suggerisce scenari non molto rassicuranti. La sceneggiatura del lungometraggio mai realizzato dal cineasta di Pozzolengo diventa il segno di un cinema fortemente ancorato alla polifonia e distante anni luce dalla supremazia della parola. Idea che sotto il segno di Andrej Tarkovskij introduce la lunga conversazione con il regista Bresciano dove la “musica audiovisiva” del suo cinema, emerge passo dopo passo, film dopo film, a partire da Il Pianeta Azzurro del 1982, primo lungometraggio, preceduto da una lunga produzione di cortometraggi a partire dal 1954, periodo in cui girava in 8mm e aveva pensato al primo trattamento de “Il paradiso terrestre”.

Spinto da Schillaci ad evocare un confronto con Tarkovskij, Piavoli trova assonanze con il grande regista russo attraverso la definizione del “suono come parola” e non come voce. Luce, immagine e fonema, soprattutto ne Il pianeta azzurro, conferiscono al suo cinema un’aura compositiva che assurge in forma complementare a tutti questi elementi.
Il primo lungometraggio di Piavoli prefigura già l’estinzione dell’uomo, rivelandosi come opera attualissima per interpretare quel “rigoglio evolutivo” di cui parla l’etologo Danilo Mainardi in relazione alla rinascita dell’ambiente originario, libero dall’ingombrante e distruttiva presenza dell’uomo. Senza attardarsi sulle questioni che conducono alcuni studiosi a immaginarsi la sesta grande estinzione di massa, ci interessa in questa sede sintetizzare l’ottimo lavoro di Schillaci nel costruire una conversazione che riesce ad approfondire il cinema di Franco Piavoli nella sua complessità, proiettandolo fuori dalla dimensione di culto in cui è da sempre confinato e proponendolo come corpus di opere tra le più acuminate per interpretare il futuro alla luce del presente.

Il pianeta azzurro, lo dice proprio Piavoli, prefigura in qualche modo la fine dell’uomo. I segni visivi con cui lo fa, sono gli strumenti agricoli che provengono dalla tradizione dei tre secoli precedenti, una casa deserta, una voce femminile lontana. Elementi apparentemente derealizzati che da Tarkovskij a Sharunas Bartas mostrano una relazione muta, spesso indifferente e inconoscibile, tra uomo e natura.
A questo Piavoli aggiunge una forma ciclica a cui non affida un senso univoco e metafisico, ma che con i mezzi dell’immagine come cellula compositiva, mostrano la prosecuzione della vita in altre forme che non siano necessariamente quelle umane.
Il male, la violenza, la dimensione di una natura talvolta matrigna, emergono con la stessa qualità d’osservazione. L’uomo, Darwinianamente, nasce dalla terra, dall’humus, ed è parte di essa.

Allo stesso tempo Piavoli rifugge l’antropocentrismo, e l’ancoraggio del punto di vista all’esperienza soggettiva; allargamento della prospettiva che lo allontana da quelle posizioni che assegnano all’uomo tutte le responsabilità della devastazione del pianeta. Piavoli descrive un sistema più complesso, dove le energie distruttive sono integrate nella stessa idea di natura.
Questa, inglobata nello scorrere del tempo, mostra quell’intimità che Silvano Agosti rilevava ne “Il pianeta azzurro”, come qualità scaturita dall’incontro dello sguardo di Piavoli con gli epifenomeni naturali. Lento fluire, che rispetto alle sculture temporali Tarkovskijane trova una sua “soavità”, sottoposta a movimenti di contrasto, ad offuscamenti e a improvvise interruzioni.
Piavoli ne Il pianeta azzurro spiega benissimo l’utilizzo di suoni disgiunti dall’immagine, il contrappunto tra i due segni, l’inquadratura della libellula e quello stridio violento di un pavone non inquadrato che nello spettatore crea improvviso salto percettivo, turba ed esprime con suoni e immagini l’idea connaturata del dolore. Per Schillaci questo metodo assottiglia, fino a farlo scomparire, quel confine tra diegetico ed extradiegetico.

La voce umana in questo senso ha un ruolo fondamentale, perché la sua posizione cambia prospettiva rispetto all’utilizzo tradizionale; ovvero non crea narrazione, ma emerge come suono. Piavoli spoglia la voce e la parola dalle potenzialità letterarie e narrative, sperimentando insieme ad altri suoni, un processo combinatorio e sinfonico.

A Nostos, film realizzato da Piavoli alla fine degli anni ottanta, è dedicata la seconda parte della conversazione curata da Schillaci, dove il racconto omerico dell’Odissea viene spogliato di buona parte degli episodi che la costituiscono. Per Piavoli era interessante puntare sul bisogno d’amore dell’uomo, senza concentrarsi sulla forza distruttrice che è al centro degli interessi di tutti i grandi autori, da Shakespeare a Kubrick, per Piavoli sicuramente grandissimi, ma parte di quell’egocentrismo e antropocentrismo che semina tracce ovunque, anche nelle opere più risibili.
Ecco che Nostos è un ritorno all’infanzia, alla natura e agli animali del proprio nucleo ed infine alla terra madre.
Lo stupore infantile diventa il centro del film, meraviglia che si accompagna alle facoltà percettive, tra sguardo e udito, spogliate da qualsiasi orientamento narrativo, slegate dall’attività cosciente e indirizzate alla scoperta dei sensi.
Per Nostos, Piavoli racconta di aver utilizzato diversi idiomi del Greco antico, mescolati ad alcune parole latine, fino all’utilizzo del sanscrito e altri elementi da cui deriva la nostra lingua. Una modalità per formulare e accordare le frasi alla ricerca sonora, così da evidenziare la valenza fonica della voce, disarticolata dal linguaggio comune.
Piavoli racconta qui un episodio gustosissimo: per ottenere i finanziamenti Statali con l’articolo 28, c’era bisogno di una sceneggiatura e quei dialoghi vengono quindi trascritti in italiano. Esigenza pratica e strategica. Perché quell’insieme di lingue e fonemi, idiomi e suggestioni sonore erano funzionali all’emozione, ma non avevano una consequenzialità logica.

Piavoli spiega il concetto di lentezza nel suo cinema, come zona del discorso entro il quale si possa trovare il movimento del tempo stesso. Ecco che la camera fissa lo individua all’interno dell’inquadratura, una dinamica che non affida al dispositivo l’illusione di crearla.

Anche in Voci Nel Tempo, l’opera realizzata da Piavoli nel 1996, il fonema dialettale è presente e spinge maggiormente verso il racconto, sempre nella direzione che interessa al regista bresciano. Storie brevi nel ciclo della vita, piccoli epifenomeni parte dei grandi fenomeni che racchiudono il nascere e il morire.

Al Primo Soffio di Vento del 2002, mostra il disagio esistenziale nel microcosmo famigliare seguito attraverso i momenti di solitudine, dove la trasformazione dalla quiete alla disperazione segue alcune connessioni globali, non dissimili dalle tragedie che accompagnano i flussi migratori.

Schillaci evidenzia come elemento fondamentale la presenza della vita non umana, aspetto che certamente accomuna tutti i film di Piavoli, ma che emerge in modo particolare in questo, dove il confronto con il cinema di Antonioni e Bergman è apparentemente possibile.
Per Schillaci è fortissima la presenza di uno sguardo non umano, in questo caso rappresentato dalla presenza costante di un gatto, che osserva la vita dell’uomo e tutto quello che accade intorno.
Piavoli conferma certamente la volontà di comprendere e osservare l’uomo fuori dagli schemi sociologici e psicologici. Il film diventa allora un’esplorazione delle sue fasi tra il mistero e lo svolgersi naturale di alcune stagioni della vita. Il gatto, può allora diventare un testimone esterno, un occhio che disancora la dimensione scopica dall’idea di osservazione come corollario della parola; vengono in mente leggendo questa parte della lunga intervista di Schillaci a Piavoli, le parole di Elemire Zolla sui felini domestici, tratte da una video intervista: “Io mi sento soffocare, tra uomini.Non riesco a parlare con loro, è così difficile stabilire un rapporto, prima di tutto perché è basato sulle parole e le parole sono sempre un povero mezzo. Non è che si comunichi molto, con la parola, per le comunicazioni veramente importanti. A che servono le parole? Ci si guarda e ci si intende. Ma con l’animale la comunicazione diventa molto più intima. Con il gatto non è difficile poi mettersi in contatto, perché è un mondo, il suo, che non diverge molto dal nostro”.

Nella seconda parte del volume Schillaci analizza il cinema di Piavoli secondo alcuni presupposti teorici, cercando di definire un’idea di immagine, tempo, montaggio, sequenza e ritmo che possano consentirci un avvicinamento al cinema di poesia dell’autore di Pozzolengo. Tra questi elementi, l’uso della parola viene descritto secondo una funzione connotativa, legata cioè al valore espressivo del suono, senza che vi sia il predominio della denotazione.
Schillaci parte dai primi cortometraggi degli anni sessanta che già mostrano la capacità di utilizzare il suono oltre la dimensione descrittiva. Allo stesso modo, il tempo viene sottoposto ad un trattamento specifico, dove questo preme, Tarkovskijanamente, sull’inquadratura, e si pone attenzione a quello che accade all’interno dei piani. Qui, il movimento endogeno crea un dinamismo nell’immagine e non tra le immagini.

Dalla prima fase creativa di Piavoli a Il Pianeta Azzurro passano quindici anni di silenzio. Schillaci dedica un intero capitolo a quella che definisce una vera e propria cosmogonia.
Per l’opera completa sceglie una duplice analisi, concettuale e filmica, cercando poi la dimensione complementare e dialogante tra le due.
La musica, in termini di analisi strutturale, viene privilegiata per avvicinarsi alle forme del cinema di Piavoli, con riferimenti ad alcuni aspetti dell’elettroacustica, nella creazione di ambienti sonori che provengono da una sorgente originaria. Schillaci utilizza il linguaggio analitico legato alla disamina delle composizioni polifoniche per scomporre Il pianeta Azzurro e per definire quella relazione tra suono primigenio, musica atonale e musica pretonale, che si verifica nel passaggio da una dimensione naturalistica all’uso extradiegetico delle musiche di Desprez e Bruno Maderna.

Prima di tuffarsi nell’appassionata e ricca lettura di Nostos, Schillaci dedica spazio a Lucidi Inganni, l’unico film di Piavoli realizzato con tecnologia video analogica, cortometraggio astratto che affronta i movimenti ondivaghi dell’amore. Fugacità e irrealtà della vita che viene mostrata ancora una volta con efficacia e rigore Tarkovskijani, per la modalità con cui tempo e sguardo superano limiti della cornice e dell’atto stesso del guardare. Le illusioni, sono il risultato di una composizione audiovisiva sospesa tra essere e non essere, e in termini immaginali, tra materia e luce.

Nostos, girato tra la Sardegna, la Campania e il lago di Garda, presenza costante nel cinema di Piavoli, si definisce attraverso la sua natura errabonda, nella tensione verso ciò che supera l’elemento radicale, inteso come attaccamento, della dimensione domestica. Le differenze tra la stesura della sceneggiatura e il film completo, occupano la prima parte dell’analisi, dove si evidenzia quanto la scrittura di Piavoli nasca in fase di produzione e post-produzione, ovvero tra set e montaggio. Schillaci evidenzia la distanza del metodo Piavoli dalla stesura di una sceneggiatura “tecnica”, dove la semplificazione al contrario predomina, per avvicinarsi agli elementi che giocano armonicamente nel suo cinema.

Voci Nel tempo, film complementare a Il pianeta azzurro non solo in termini concettuali, vive della stessa ciclicità stagionale, con quella umana che sostituisce la cosmogonia del primo lungometraggio.
Nel soggetto, costituito da una cartella dattiloscritta, si avvicendano armonie e disarmonie che ci guidano nel passaggio dalla vita alla morte. La comunità umana, con i suoi limiti, immersa in quel macrocosmo, definisce una linea invalicabile, dove il presente accoglie e aggrega i semi del passato e le potenzialità del futuro, tra rispecchiamento e collisione.

Paesaggi e Figure è il mediometraggio che anticipa Al primo soffio di vento. Schillaci gli dedica il capitolo più breve del suo volume, per definire ancora una volta il metodo rigoroso di Piavoli, dove i temi visivi preludono al lungometraggio successivo. Molto più astratto e vicino a Lucidi inganni, è un flusso che si delineerà in modo più specifico.

Al primo soffio di vento, quarto lungometraggio di Piavoli, recupera il discorso di Paesaggi e Figure, con l’uomo e la sua dimensione individuale al centro. Famiglia e comunità sono due mondi estranei, dove l’isolamento fisico e spirituale si manifesta all’interno di una cascina occupata da una famiglia ricca e rurale. Lo sguardo esterno, distaccato di questa solitudine, è affidato ad un gatto.
Piavoli si serve del montaggio analogico fra ciò che è umano e ciò che non lo è, per scardinare la visione antropocentrica con un’osservazione più ampia all’interno della biosfera.
Il gatto osserva il mondo umano senza interagire con la medesima centralità giudicante.

Il volume di Schillaci si conclude con alcune analisi trasversali che recuperano tutto il suo percorso, attraverso i mediometraggi e i corti realizzati da Franco Piavoli dopo il 2002. Si prende quindi in esame Affettuosa presenza, Lo zebù e la stella e L’orto di Flora , analizzati nel capitolo Poeti, Bambini e Contadini, Il parco del Mincio , in Lungo il fiume, dove la relazione di Piavoli con l’acqua, affrontata lungo tutto il volume, viene approfondita in modo specifico, Frammenti , l’episodio realizzato per il progetto collettivo di Venezia 70 “Future Reloaded”, intitolato Interludio, e il più recente Festa nel capitolo Nuovi Sguardi sull’umano.

Schillaci dedica a Il paradiso terrestre la chiusura del suo ricco e approfondito lavoro di analisi. Trattamento incompiuto e sconosciuto per mezzo secolo, che Piavoli ha ripreso con l’idea di farne il suo prossimo film. La radura di un bosco, vicino ad un fiume, diventa luogo per una giovane coppia per il loro incontro d’amore. Presenze umane, dalla caccia a chi cura la terra, saranno le interferenze estranee che romperanno l’armonia, insieme alla presenza di aerei supersonici.

Schillaci analizza passo passo l’adattamento, raccontandoci un film possibile, il cui spessore, come scrive “non è certo inferiore a quello de Il pianeta azzurro”.

In appendice, il volume propone la partitura originale per Nostos, scritta da Luca Tessardelli, oltre alla bibliografia e alla filmografia.

Il cielo, l’acqua e il gatto. Il cinema secondo natura di Franco Piavoli
di Filippo Schillaci
in appendice le musiche originali di Luca Tessadrelli per Nostos
illustrato con fotogrammi e foto di Mario Piavoli, Joe Oppedisano, Luciana Mulas
Edizioni Artdigiland, 2020 – 335 pagine
Formato paperback
Versione economica in bianco e nero
EURO 22.90
Limited edition a colori
disponibile solo sul sito ufficiale Art Digiland, euro 30 (in offerta a 25 euro, offerta prolungata al 31 gennaio) + spedizione

Filippo Schillaci si occupa di fotografia e di linguaggio cinematografico. In campo cinematografico ha pubblicato Il tempo interiore. L’arte della visione di Andrej Tarkovskij (2017) in cui risale alla poetica dell’autore attraverso l’analisi della forma filmica. Ha curato sul sito web nostalghia.com la pagina dedicata ai luoghi italiani del maestro russo.

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Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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