giovedì, Aprile 25, 2024

Il nome dell’amore (Deadline at Dawn) di Harold Clurman: recensione

Deadline at Dawn, distribuito in Italia con il titolo de "Il nome dell'amore" è il primo e unico film diretto dal regista teatrale Harold Clurman, membro fondatore del Group Theatre. Sceneggiato dal sodale Clifford Odets a partire da un romanzo di Cornell Woolrich, fu realizzato con la collaborazione del grande William Cameron Menzies, co-regia non accreditata del film. Noir atipico e transgenerico tra toni oscuri e la causalità della commedia situazionale, entra ed esce dal ventre oscuro di New York come un'incessante fuga verso la luce.

Prima ancora che assumesse il peso e la complessità attuali negli ambiti delle produzioni cinematografiche e televisive, la figura del Production Designer veniva definita per la prima volta da David O. Selznick per descrivere il talento e il ruolo di William Cameron Menzies.
La travagliata lavorazione di “Via col Vento” deve al grande scenografo e art director la continuity visuale di un progetto passato per le mani di tre registi, ottenuta grazie all’estensione di quelle competenze altrimenti circoscritte alle funzioni di una scenografia tout court.
Menzies, formatosi come illustratore, creava mondi di pura fantasia capaci di staccarsi dallo sfondo, per integrarsi totalmente con la dimensione cinematica del film. Uno dei primi esempi in tal senso è la sequenza dell’incendio di Atlanta in “Via Col Vento”, dove l’incontro tra ricostruzione e flagranza assume connotazioni inedite, a partire dai fondali avanzati dai set di “King Kong” e de “Il re dei re”, ricontestualizzati storicamente per essere incendiati, insieme ad una miriade di dettagli concreti inseriti all’interno di uno spazio delimitato.

Un controllo più specifico rispetto a quello operato da un semplice scenografo, dove la traduzione grafica di un’idea, prendeva corpo attraverso una concezione visuale totalizzante, in grado di integrare numerosi aspetti che gli consentissero di passare dall’illustrazione allo schermo.

Tra le regie non accreditate di Menzies, figura anche “Deadline At Dawn“, il noir attribuito al regista teatrale Harold Clurman, qui per la prima e ultima volta dietro la macchina da presa per una produzione RKO, con Adrian Scott al timone un anno prima del suo inserimento nella lista nera dei dieci di Hollywood, che si rifiutarono di testimoniare presso la Commissione per le attività antiamericane.
Il contributo di Menzies rimane anonimo, ma non è difficile scorgerne lo spirito, in questo bizzarra commedia filosofica dai toni scuri, scritta per lo schermo dal drammaturgo e sceneggiatore Clifford Odets, parte del Group Theatre di New York fondato dallo stesso Clurman insieme a Cheryl Crawford e Lee Strasberg.
Odets adatta l’omonimo romanzo di Cornell Woolrich, pubblicato nel 1944 con lo pseudonimo William Irish e ne trasforma ritmo e andamento accordandoli con la velocità della screwball comedy.

Come altre elaborazioni “infedeli” dall’opera dello scrittore americano, il film sprigiona un’aura molto vicina alla logica onirica del suo mondo narrativo, grazie ad un contrasto pulsante tra l’anima teatrale perseguita dalla coppia Clurman/Odets e un impianto visuale costituito dal punto di vista di Menzies, potenziato dalla contrastata fotografia notturna di Nicholas Musuraca, già direttore della fotografia per le più importanti produzioni di Val Lewton e un anno prima sul set de “La Scala a Chiocciola” di Robert Siodmak.

Mentre la morsa del tempo che spinge la vita dei protagonisti a condensarsi in una sola notte delinea una morfologia urbana di inesorabilità Woolrichiana, Odets innesta un florilegio verbale fatto di motti di spirito e slittamenti di senso, più inerente le “battles of sexes” della commedia coeva. New York emerge da questo contrasto, come ventre minaccioso, mentre una galleria di personaggi bizzarri entrano ed escono dallo spazio drammaturgico, formando a poco a poco i tratti di una comunità apolide che cerca di difendersi dalla morte.

Alex è un marinaio onesto e ingenuo interpretato da Bill Williams; una notte incontra la cinica e disillusa June, ballerina del dance hall con il volto di una Susan Hayward alla vigilia dei trent’anni che nel film veste i panni di una ventitreenne. Con 1.400 dollari in tasca, Alex ricorda appena gli eventi della notte scorsa, ma ha intenzione di restituire quei soldi alla donna da cui li ha presi, il tutto prima dell’alba, ovvero prima che parta il prossimo autobus per Norfolk, in Virginia. L’ostinata volontà del giovane scalfisce anche la scorza della bella June, che lo aiuterà nell’impresa. Scopriranno presto che Edna, la donna a cui il marinaio avrebbe preso il denaro, è ormai un cadavere.

Susan Hayward in “Deadline at dawn”

Nello spazio dell’appartamento di Edna, che da li si irradia come un alveare, i tempi causali della commedia situazionale si intrecciano con gli stessi principi di causa ed effetto che generano le aporie del cinema nero.

La figura della femme fatale, se la si intende come energia trasgressiva in grado di spezzare le norme sociali, è già soppressa e punita; confinata fuori campo per tutta la durata del film incarna la conseguenza attiva di quel fatalismo che spinge i personaggi del noir in un vicolo cieco, costringendoli a ripetere azioni recursive e inutili.
Ma allo spirito invisibile e manipolatore di Edna, attraverso il quale si plasmano i desideri di coloro che l’hanno incontrata, si contrappone la speranza di June, sulla quale la penna di Odets cuce addosso gli elementi della disillusione seduttiva e Fatale, insieme alle caratteristiche positive di una Nora Charles proletaria.
Scelte combinatorie che modellano un’immagine non riconciliata della città, spazio difficile e pericoloso da vivere.

Dall’appartamento di Edna entra ed esce un’umanità dolente, intrappolata nel proprio tempo oppure fuoriuscita dal ventre scuro della notte, senza una storia a cui agganciarsi se non quel frammento del destino che tutti accomuna.
June è l’unica fuori luogo e fuori posto, abita infatti lo spazio con sfrontatezza e senza paura, cambiandone il senso e risignificando le azioni. La scoperta di un cadavere non le impedirà di farsi una bevuta nella cucina adiacente, mentre il pedinamento di una possibile testimone diventerà l’occasione per penetrarne il dramma interiore, in quello splendido dialogo interrotto tra marito e moglie dove June può spiare la messa in scena e allo stesso tempo orientarla, in una forma dinamica di dialogo che rimbalza tra parola, volto e profondità di campo, con uno stile che è difficile non attribuire al talento di William Cameron Menzies.

Susan Hayward e Ossa Massen in “Deadline at Dawn”

Questa continua riconfigurazione dello spazio privato ai confini di quello urbano ha più di un punto di contatto con un successivo adattamento Woolrichiano, lo splendido “The Window”, diretto nel 1949 da Ted Tetzlaff, sguardo raggelato sulla perdita dell’innocenza nella rete di relazioni sottesa dalla città, ma anche esempio formidabile delle possibilità del set-città-mondo come apertura e chiusura dello sguardo.
Viene in mente anche l'”After Hours” scorsesiano, come analoga spinta verso la speranza in una New York irreversibilmente mutata, ma ugualmente mostruosa nel generare e respingere i propri figli.

Ancora New York, in “Deadline at Dawn”, viene osservata sempre da una prospettiva obliqua, verso un punto di fuga senza fondo, nella distorsione visuale causata dalla luce notturna.
Arteria deserta, non ha l’aria accogliente e postribolare del Dance Hall, né lo strano clima famigliare che progressivamente si instaura nell’appartamento dove Edna è stata trovata morta.

Deadline at Dawn

William Cameron Menzies, nel suo lavoro come art director per la United Artists, mutua dalle geometrie Art Deco parte del suo immaginario. É una percezione della città che procede di pari passo con la relazione tra arte e tecnologia e che l’artista di New Haven filtra con l’esperienza visuale dell’espressionismo tedesco. Le aspre geometrie urbane nei bozzetti di Menzies incontrano prospettive più ardite e distorte, che puntano verso una profondità di campo estrema.
Senza attardarsi sull’influenza del grande production designer in tutto il cinema statunitense, fino ai fratelli Coen, non è difficile constatare quanto il taglio diagonale delle sue prospettive, capace di creare un punto di vista obliquo che traccia una linea verso l’infinito, sia lo stesso che rileviamo nella maggior parte delle inquadrature urbane di “Deadline at Dawn”.

Deadline at Dawn


I rapporti tra Menzies e Clurman pare non fossero idilliaci, questo spiegherebbe la totale scomparsa del primo dai crediti del film, aspetto che non cancella un’evidente influenza nella costruzione del set, accentuata dalle scelte espressioniste del direttore della fotografia Nicholas Musuraca.
Il contrasto allora si verifica tra la scrittura visuale di Menzies/Musuraca e quella agganciata ai personaggi di Clurman/Odets. La coppia del Group Theatre costruisce in modo evidente il carosello di varia umanità vomitato dal cuore notturno newyorchese, tra gangster, ubriachi dannati per amore, donne in cerca di una seconda vita, un tassista immigrato che dispensa saggezza, una ballerina dal cuore indurito e un marinaio che incarna lo spirito dell’ingenuo ragazzo di provincia.
Alex e June affrontano la corruzione della città in modo diverso, ma anelano entrambi ad un modello di vita lontano dalla promiscuità dei grandi centri.
Le peculiarità transgeneriche del noir, vengono quindi estremizzate, mantenendo al centro tensioni e pulsioni che lo caratterizzano come territorio apolide, e allo stesso tempo aprendosi alle possibilità combinatorie della commedia umana.

Mentre si possono ricondurre a Menzies l’uso della profondità di campo nella dialettica tra spazio e personaggio, ma anche nelle modalità con cui i corpi si muovono e interagiscono, è il personaggio di Gus Hoffman, il tassista interpretato da Paul Lukas, ad assorbire le intenzioni di Clurman/Odets.
Gus ha una relazione controversa con la città, New York l’ha accolto, ma la sua logica gli sfugge.
Quando si confiderà con June, le dirà quanto il contesto urbano riesca ad innervosirlo; “Faccio solo finta che non sia così. Che logica c’è? Dov’è il senso?“.
Luogo capace di generare miseria e orrore, la città schiaccia i suoi abitanti nella coazione a ripetere di gesti e movimenti privi di finalità. “La logica che stai cercando – dirà Gus a June – è che non c’è alcuna logica“.

Il fatalismo di Gus non è così diverso da quello dei personaggi del cinema noir di quegli anni, ma nel rilevarne le caratteristiche causali e necessarie, il tassista di 53 anni crede ancora in quelle superstizioni che consentono di sperare, nonostante ci dica in modo manifesto di odiare il sole.
Su questo confine labilissimo tra vita e morte, incorpora una vera e propria elegia urbana che si lega indissolubilmente alla complessità del suo tessuto, pur anelando all’idea di fuga come spinta verso il movimento e la vita.

Edna Bartelli, Femme Fatale negata ad eccezione dei primi minuti del film in cui la vediamo ancora viva, è per Gus l’immagine della corruzione, lo spirito della città che ha avvelenato tutti i pozzi, con le lusinghe di un futuro migliore.
A partire da quel dialogo, Clurman/Odets innescano un movimento opposto e contrario alla casualità spietata del cinema nero americano e in un certo senso all’incubo senza uscita che caratterizza la narrativa di Cornell Woolrich.

Gus cerca di legittimare i desideri di June, mettendola in guardia dal cinismo e da quel veleno che corrompe i momenti più dolci della vita, invitandola ad accogliere la naiveté di Alex e il suo sguardo, irrimediabilmente escluso dalla rete di relazioni urbane.

Ecco che il personaggio interpretato dalla Hayward è sospeso a metà tra le ombre e le luci di quel femminile-negativo che nel noir spezza il legame con le regole sociali consentite.
Il sacrificio di Gus, più che una reintegrazione della norma famigliare è il gesto disperato di chi non accetta la disgregazione identitaria causata dalla corsa della città verso l’individualismo più sfrenato; per fermare questo movimento inesorabile si è costretti ad uccidere e a rimettere in circolo la necessità della morte, come condizione ineludibile.

Il territorio di transito che “Deadline at Dawn” rileva è allora un ibrido interessante; come nel contrasto tra la visione ottica di Menzies con quella dialettica di Clurman/Odets, reiventa le aporie del cinema noir: Il destino è una corsa disperata contro il tempo, fino alla prossima alba.

Il nome dell’amore aka Scadenza all’alba (Deadline at Dawn) – B/N USA 1946
Regia: Harold Clurman e William Cameron Menzies (Non accreditato)
Fotografia: Nicholas Musuraca
Sceneggiatura: Clifford Odets
Produzione: RKO – Adrian Scott

Interpreti: Susan Hayward, Paul Lukas, Bill Williams, Joseph Calleia, Osa Massen, Lola Lane, Jerome Cowan, Marvin Miller, Roman Bohnen, Steven Geray, Joe Sawyer, Constance Worth, Joseph Crehan

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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