sabato, Giugno 14, 2025

Kika di Alexe Poukine: recensione, Cannes 78

Dopo una serie di film creativi che attraversavano i codici del cinema del reale, Alexe Poukine realizza il suo primo film di finzione con la consueta capacità di tratteggiare un ritratto femminile fuori dalle convenzioni, ma con una liberà addirittura maggiore nell'impiego di molteplici registri. La commedia trascolora nel dolore, il dolore nella dimensione del tragico. Visto a Cannes nella sezione Semaine De La Critique. La recensione

Lo stile radicalmente osservazionale e immerso nella vita degli altri, non è meno intenso nel primo film di finzione di Alexe Poukine, dove viene mantenuta la stessa concezione intima e ravvicinata all’esperienza dei personaggi, rispetto agli splendidi ritratti che hanno caratterizzato la sua filmografia, concepita sino ad ora entro la cornice del documentario. La differenza più marcata tra cinema del reale e organizzazione dello stesso in una drammaturgia dagli snodi strettamente finzionali, si rivela nella possibilità di utilizzare con maggiore libertà registri diversi, spesso contrastanti e più aderenti alle antinomie della vita.

Kika ha molti punti di contatto con la poetica della regista franco-belga, soprattutto per la capacità di tratteggiare un ritratto femminile fuori dalle convenzioni e in una posizione di transito tra l’integrazione sociale e la marginalità. Due condizioni messe in abisso, con l’osservatore che improvvisamente deve allinearsi al punto di vista precario ed estremo sulla realtà.

Operatrice in un centro per l’impiego e l’integrazione, svolge con empatia e curiosità i suoi compiti.
Storie di ordinaria sopravvivenza che occupano la parte più viva della sua esistenza, fino a quando per un equivoco, non rimarrà bloccata nell’officina di un meccanico, dove ha portato a riparare la bicicletta della figlia. L’amore tra i due esplode senza limiti e nella clandestinità, facendo emergere tutte le contraddizioni del rapporto con il compagno della donna, ormai senza più alcuna spinta emotiva.

Poukine segue la leggerezza della commedia romantica, con un taglio che accumula eventi e situazioni e che si serve, miracolosamente, solo di un paio di gesti e uno sguardo, per definire i passaggi dell’agnizione con il compagno. Un esempio fulgido di cinema, che assegna agli effetti visibili sul volto e sul corpo riluttante di una vibrante Manon Clavel, il valore esplicativo e non rappresentabile dei sentimenti, senza cedere al didascalismo confessionale.

In questa contrazione del tempo, senza che ci sia quello effettivo per assimilare il nuovo menage, l’uomo che Kika ama, muore fuori campo per un infarto e scompare definitivamente di scena.
Il lutto della donna, mostrato come indurimento e annichilimento progressivo di tutte le capacità di contatto con gli altri, ad eccezione del rapporto con la figlia, si sovrappone alla rivelazione più difficile da accettare: Kika è incinta, condizione che implica forza e duttilità, ma soprattutto che spinge la sua economia personale nello spazio della precarietà, conosciuta a fondo attraverso i racconti degli altri.

Il film allora cambia più di una volta, la commedia invade il territorio del dolore e quest’ultimo, quello dell’osservazione antropologica legata al mondo delle Sex Worker, realtà che per combinazione e curiosità consente a Kika di guadagnare velocemente denaro e di conoscere un sottomondo fatto di abiezione e compromessi, più di quanto non sia riuscita a scorgere e comprendere nel contesto lavorativo ufficiale.

Sono numerosi i film francofoni che hanno affrontato il tema della prostituzione come alternativa sociale, identitaria, resistenza politica, oppure come possibilità di riscrivere le coordinate del desiderio. Senza tornare al Godard di Vivre sa vie, in tempi relativamente recenti viene in mente lo sguardo disilluso di Emmanuelle Bercot in Mes chères études, quello nichilista di Camille Vidal-Naquet con Sauvage, l’occhio antropologico di Anissa Bonnefont in La Maison e quello libertario legato ad antiche e nuove forme di conoscenza carnale per come le ha rimesse in scena Lucie Borleateau in A Mon seul désir.
Eppure quella di Alexe Poukine è una prospettiva originale e sofferta, molto distante da quelle citate e apparentemente più vicina a Gigola di Laure Charpentier e a Dogs Don’t Wear Pants del finlandese Jukka Pekka Valkeapää. Apparentemente, perché la definizione dei confini tra necessità ed elaborazione del lutto, attraverso un’immersione progressiva nell’universo delle fantasie BDSM, assume contorni meno orientabili, più sfumati e sottili, rispetto ai film citati, dove il dolore era comunque centrale.

Il luogo della prostituzione, hotel adibito agli incontri, è lo stesso dove i corpi di Kika e dell’uomo amato si univano al riparo dal mondo. Spazio una volta sacro sul quale Kika compie un processo di depotenziamento con la freddezza necessaria per superare il disgusto. Non c’è alcuna convinzione diversa dal denaro, né può essere scardinata dalla sorellanza accogliente delle altre professioniste, la cui vicinanza serve ad attutire la strisciante dinamica dell’abuso.

Le pratiche BDSM, introdotte sin dall’inizio e destinate a diventare sempre meno soft, mettono in luce un’antropologia maschile basata sullo sfruttamento e l’oggettificazione del corpo femminile.

Leccare una scarpa, pregare per un campione di feci, imporre le percosse sul proprio corpo, definisce un crinale sottile sospeso tra l’idea di potenziamento dell’identità femminile e la sua stessa riduzione ad una parte del corpo, alla richiesta di un servizio, alla dissezione dell’identità attraverso le parafilie.
Questa duplice lettura è disponibile attraverso la repulsione soggettiva di Kika, la sua incapacità di immergersi fino in fondo con convinzione nelle pratiche del dolore, con un ribaltamento del ruolo che solitamente viene assegnato ad una mistress. Quella spietata, ma capace di comprendere l’abisso che si cela dentro il nocciolo nero degli individui, farà da tramite per la donna, in una sequenza che interrompe brutalmente i toni della commedia, per sprofondare fisicamente nel dolore di Kika.

Poukine riesce con sorprendente leggerezza del tocco a sollecitare corde profonde, interrogando l’esercizio del dolore come forma di elaborazione, ma soprattutto mostrandolo in tutta la sua spietata nudità quando la violenza lascia il posto ad un abbraccio non desiderato e la loro sovrapposizione diventa oscena, la semplicità del gesto aberrante, la gentilezza più dura di un pugno.
E quella vita di cui Kika sembra essersi dimenticata insieme allo spettatore, ci chiediamo improvvisamente se potrà sopravvivere agli inferi delle percosse.

La regista mostra improvvisamente una lettura critica del dolore, estremizzando quel rifiuto del contatto che interessa le nostre bolle relazionali. Una prospettiva politica ed esistenziale descritta con la forza di un cinema che non crea un paradigma dell’esperienza, ma evidenzia i luoghi e i passaggi in cui questa si manifesta attraverso la trasformazione.

Kika di Alexe Pukine (Belgio, Francia – 2025 – 110 min)
interpreti: Manon Clavel, Ethelle Gonzalez Lardued, Makita Samba, Suzanne Elbaz, Anaël Snoek, Thomas Coumans, Kadija Leclere, Bernard Blancan
Sceneggiatura: Alexe Poukine, Thomas Van Zuylen
Fotografia: Colin Leveque
Montaggio: Agnès Bruckert
Musica: Pierre Desprats



Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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