La notte, ancora al centro della ricerca di Yolande Zauberman, attenta ad individuare un luogo di passaggio dove qualsiasi trasformazione è possibile. Spazio dell’ipovisione, ma anche opportunità di affinare lo sguardo con la prossimità dei mezzi digitali, la cui sensibilità tecnica disinnesca la composizione gelida dell’immagine, a favore di una complicità intima con le creature che contribuiscono a costruire una civiltà parallela, spinta ai margini di realtà traumatiche.
L’incertezza della luce urbana, i volti che emergono dal cono d’ombra per occupare un’area incerta dove finalmente storie, percorsi e identità prendono forma nel rumore digitale dei pixel, quasi fossero fantasmi elettronici, falene attratte dalla luce, ma che vivono il buio come garanzia di sicurezza e protezione.
La forma confessionale di “Would You Have Sex with an Arab?” e del successivo “M” è la stessa in “La Belle de Gaza”, così come l’individuazione delle fratture tra desiderio e società. Mentre i film precedenti cercavano risposte all’interno del contesto israeliano, attraversato da contraddizioni e inserito in quella relazione circolare e mai riconciliata con l’ortodossia religiosa, in questo caso la rivelazione di un’epifania laica amplia l’orizzonte e mette a confronto Gaza e Tel Aviv nella difficile lotta per la propria autodeterminazione.
L’innesco è l’indagine su La bella, donna trans fuggita a piedi dalla striscia e di cui Zauberman mostra una serie di foto, parte di una testimonianza trapelata dal film precedente. Nessuno sembra riuscire ad individuarla, ma ciò che emerge progressivamente sono i tratti di un’identità sfuggente, ricostruita attraverso i volti filmati ad Hatnufa street, luogo della prostituzione transessuale a Tel Aviv. Storie di transizione, non solo per la descrizione di più percorsi di allineamento tra corpo e identità di genere, ma per la zona di passaggio che occupano in quella geografia di confine che disappartiene a qualsiasi norma sociale riconosciuta.
Si delinea una cartografia alternativa, immersa nello spazio trascendente della vita notturna, veicolo di una nuova mitologia, nata per resistere rispetto alle coercizioni ideologiche e religiose.
I corpi si rivelano come principio di mutazione e rinascita nel limbo potenziale che dall’oscurità conduce verso la luce.
Zauberman con il suo cinema è sempre più vicina al digitale del David Lynch di Inland Empire, poco importa se differiscono i formati e l’equipaggiamento tecnico, ma è lo studio dei corpi nella luce, sul limite della sensorialità e dell’apparenza a definire altre possibilità rappresentative.
Rispetto al sesso interetnico che in “Would You Have Sex with an Arab?” serviva anche a raccontare la difficoltà di costruire una società realmente apolide, il desiderio e la paura di incontro con l’altro da parte delle nuove generazioni israeliane, il nuovo film elabora un contrasto radicale tra lo spazio di rappresentazione vitale del sé e la sua violenta soppressione.
L’unità linguistica della notte, codice sociale alternativo nel cinema di Zauberman fin dal bellissimo “Clubbed to Death”, diventa paesaggio insulare, luogo dell’empatia dove tutte le soggettività possono manifestarsi e affrontare la catarsi del dolore.
Nadine, le cui radici beduine le impediscono di tornare a casa dopo la transizione, descrive una rottura insanabile con il tessuto religioso e culturale delle sue origini, non dissimile per certi versi dal percorso di Talleen Abu Hanna, Miss Trans Israel nel 2016 e in collisione con i principi cristiani della famiglia stanziata a Nazareth. Un rifiuto raccontato attraverso il volto di Talleen riflesso nello specchietto dell’autobus guidato dal padre, dove gli sguardi non si incrociano e l’ovale incorniciato della donna rivendica una connessione spirituale con le proprie origini, oltre quella “guerra tra corpo e anima” che è radice di ogni divisione.
Danielle, sopravvissuta alle violenze palestinesi, racconta un linciaggio brutale, il corpo ricoperto dal sangue, l’abbandono vicino ad un checkpoint e la spinta coatta da parte del gruppo a correre verso i soldati dell’IDF per provocarne la morte. Ed è sempre lei che decide di non affrontare scelte unidirezionali senza possibilità di ritorno, situandosi in altro modo rispetto al percorso transidentitario, per scegliere la circolarità tra maschile e femminile, una compresenza che le consente di sperimentare la mobilità dell’essere.
Se tra i racconti non può altro che emergere la brutalità del fondamentalismo islamico rispetto alla libertà di modellare il corpo sulla profonda realtà dei processi identitari, con il desiderio che i propri figli muoiano, mentre altri vengono scaraventati dai tetti, Tel Aviv può essere luogo di realizzazione, ma anche di emarginazione, bullismo violento, laicità parziale. Nido dove proteggersi, ma nella clandestinità notturna.
La ridefinizione dei confini è allora un movimento interno ed esterno, legato alla collocazione sociale di tutte queste apparizioni ancora sospese tra realtà e virtualità, ma soprattutto alle potenzialità politiche del soggetto in quanto tale. Queste negoziano con le radici culturali e religiose di appartenenza una nuova lettura della fede, tanto da plasmare lo spazio sacro alla luce di un’inedita, possibile laicità. L’accoglienza nello spazio pubblico rimane per il momento incorporata alle qualità della notte. In questo humus transizionale, dove emergono identità capaci di risignificare le proprie esistenze alla luce di violente negazioni, La belle rimane figura sfuggente, ideale, disseminata nelle esperienze plurali a cui Zauberman offre spazio e voce.
E se le immagini davvero commoventi dove si festeggia il compleanno di Talleen, mostrano un futuro di speranza nel ricongiungimento familiare, attraverso la forza del dispositivo mnestico generato dalla sovrapposizione tra le immagini di una vecchia VHS e il tempo presente, dove il desiderio di un padre può improvvisamente convergere con quello di un figlio che si è sempre immaginato figlia, il contrappunto con l’esperienza di Nathalie sposta nuovamente la soglia percettiva. Sempre nascosta da un velo tempestato di paillettes, rimane sospesa tra erotismo e distanza, rinuncia e determinazione.
Per lei il ritorno all’Islam coincide con la transizione, e fornisce un’immagine palindroma che toglie il fiato, la stessa che Zauberman ha evocato in alcune interviste dove le esperienze del maschile e del femminile e quelle di due paesi in guerra conosciute dalle donne trans, potrebbero prefigurare un’idea di pace suggerita da chi già l’ha raggiunta sbarazzandosi del dissidio ideologico tra corpo e persona.






