giovedì, Aprile 18, 2024

La grande illusione di Jean Renoir: la versione restaurata, al cinema

Felice il tempo che non ha bisogno di eroi!” fa dire Brecht al suo Galileo.
E nel secolo scorso di eroi c’é stato un gran bisogno. Ma può essere definito “eroe” un film? Pensiamo di sì, se ripercorriamo la storia de La grande illusione.
Nonostante la Coppa della Giuria al Festival di Venezia 1937, Mussolini lo vietò in Italia e solo nel ’47, ampiamente tagliato, il film tornò nelle sale (una firma celebre sul decreto di censura fu quella di Giulio Andreotti). Ma la censura l’aveva colpito anche in madrepatria. Già all’uscita, infatti, fu imposto a Renoir di eliminare molte scene, come quelle sulle malattie veneree dei militari. Questo fino a quando Vichy non ne decise il sequestro definitivo. Il Ministero della Propaganda di Hitler, da parte sua, aveva già ampiamente provveduto all’ ostracismo della pellicola in Germania, e fu così che, negli anni della seconda guerra mondiale, il film scomparve del tutto, al punto che si pensò fosse andato distrutto. Nel ’46, tornata fortunosamente alla luce una copia in grave stato di alterazione, il film fu rimesso in circolazione, ma ne pagarono le spese Dita Parlo e la sua parte, breve ma intensa, di contadina tedesca protagonista di una delicatissima liaison amorosa col fuggitivo Jean Gabin. Nel ’58 il regista e il co-sceneggiatore Charles Spaak ne riscattarono i diritti per distribuirlo e Renoir, in mancanza del negativo originale, tentò di ripristinare un montaggio abbastanza fedele delle scene, ma bisognò aspettare la fine della guerra fredda perché la copia ufficiale del film, deportato, è il caso di dirlo, da Parigi a Berlino prima della guerra e fatto prigioniero dall’Unione Sovietica alla fine, divenisse oggetto di scambio fra la cineteca di Mosca e quella di Tolosa.
Contropartita chiesta da Mosca per lo scambio: un film della serie 007. Oggi la Cineteca di Bologna presenta la versione originale francese, con sottotitoli italiani, in 70 sale, dopo il restauro realizzato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata.

Resta da chiedersi cosa abbia reso così inviso il film ai governi di mezza Europa, trattandosi di guerra (quella del ‘14/’18) proprio quando venti di guerra soffiavano impetuosi da un capo all’altro del vecchio continente. La grande illusione é innanzitutto un film senza battaglie né morti, e questo non passò inosservato all’occhio acuminato del censore (l’unico a morire, per sua scelta, lo farà per amore della vita stessa e per salvare altri, ma non bastava a redimere il film dalle accuse di propaganda antipatriottica).
E poi quel titolo! Un programma, una sfida all’intero establishment politico-militare del momento, così prodigo nel tessere alleanze e inviare “aiuti fraterni” a dirimere controversie politiche e preparare alle nazioni un futuro di prosperità e benessere (l’uscita film, nel ’37, avvenne all’indomani dello scoppio della guerra in Spagna).
Se poi non risultasse chiaro il senso sotteso a tutta l’opera, uno dei personaggi-chiave, il ricco tenente ebreo Rosenthal (Marcel Dalio), basterebbe da solo a prefigurare scenari venturi in cui l’aspirazione alla pace, peraltro normale dopo i milioni di morti della Grande Guerra, si rivelò davvero una grande illusione.

Dunque, a conti fatti, nonostante fucili, divise ed elmetti se ne vedano parecchi sulla scena, La grande illusione è in realtà un film pacifista. Le sequenze in cui si divide la storia, l’arrivo dei personaggi sulla scena e la loro caratterizzazione, i momenti topici a cui Renoir affida il suo messaggio, le allegre divagazioni sull’onda di motivetti sonori presi dai bistrots parigini, la grande scena della Marsigliese, intonata dal coro dei prigionieri e portata fino alla fine senza interruzioni, tutto vive in un’amalgama purissimo di leggerezza e grazia, sereno umorismo e riflessione profonda sul reale, mentre tesse di volta in volta processi di centratura prospettica e focalizzazioni tematiche alimentati da profonde idealità, quelle che fecero dire a Renoir: “Ho realizzato La grande illusione perché sono pacifista”.

Questa sottilissima satira sulla guerra, affilata più di una baionetta, fu fortemente voluta anche da Jean Gabin, primo fra i protagonisti nel ruolo di Maréchal.
L’incipit del film lo riprende al bar, chino su un grammofono che suona Fru Fru del tabarin. Aspetta di andare dalla sua bella, ma il capitano, l’aristocratico barone de Boeldieu (un ironico e magnificamente raffinato Pierre Fresnay, l’incarnazione stessa della classe a cui appartiene), lo convoca per una missione. La successione degli eventi partirà da lì e, passando per la solida fortezza teutonica di Wintersborn, finirà fra le immacolate nevi svizzere, lì dove i proiettili non possono arrivare e da dove, forse, ripartirà la Storia.
(continua nella pagina successiva…)

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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