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La memoria dell’acqua di Patricio Guzmán: il tramite tra noi e le stelle

Con El Botón de Nácar (Il bottone di madreperla), titolo italiano La memoria dell’acquaPatricio Guzmán ottiene l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino 2015.
E’ la seconda parte di quella che sarà la trilogia che mi porterà nel prossimo lavoro sulle cime della Cordigliera” ha detto il regista, una promessa che è molto più di un patto con il pubblico, è l’impegno con una storia di uomo e di artista che del cinema ha fatto una riflessione etica sul tempo, sulla memoria, sul senso del vivere, minuscoli corpi effimeri, in un Universo infinito in cui galleggiamo solo grazie all’arca della memoria.
Credo che la memoria abbia una forza di gravità che ci attira sempre. Quelli che hanno memoria sono capaci di vivere nel fragile tempo presente. Quelli che non ce l’hanno non vivono da nessuna parte. Ogni notte, lentamente, impassibile, il centro della galassia passa sopra Santiago.
Così Guzmán chiudeva quella splendida elegia visiva che è Nostalgia de la luz, miglior documentario all’European Film Awards 2010 e primo capitolo della trilogia, un canto sospeso fra deserto (Atacama, in Cile) e galassie scrutate dalle bianche cupole del VLT sul Cerro Calàn.
Sul tappeto sonoro tessuto da accordi di chitarra, arpa, piano, clarinetto, duduk e whistle, la magnifica fotografia di Katell Djian aveva esplorato il deserto cileno, “il punto più arido del nostro umido pianeta”, tanto simile al suolo che un giorno l’uomo calpesterà sul pianeta Marte.
La totale assenza di vita in quell’ habitat straordinariamente secco favoriva la lettura del cielo per la trasparenza assoluta della sua atmosfera, e la galleria di stelle dell’Hubble Space Telescope dell’Università del Cile aveva dilatato all’infinito la vertigine che “questa informe oscurità volante” ** chiamata terra prova a contatto con gli spazi siderali.
A quel mondo arido e intriso di memoria del nord Guzmán sostituisce ora il regno dell’acqua e dei ghiacci dell’estremo sud patagonico, una sottile striscia di terra incorniciata da miriadi di isole che formano l’arcipelago più esteso del mondo.
E come le terre del nord, anche le gelide lande deserte del sud hanno molte storie da raccontare.
Le rocce disegnate, scolpite, corrose lungo i fiumi di pietra del deserto di Atacama parlavano di carovane nomadi che per 10.000 anni avevano attraversato quegli stessi luoghi che alle madri, mogli, sorelle dei desaparecidos del regime di Pinochet e alla loro ricerca incessante, ostinata e silenziosa avrebbero restituito tanto tempo dopo frammenti di ossa e miseri resti.
Le acque del sud raccontano di un popolo che viveva in armonia con l’acqua e la terra e fu annullato dai conquistadores bianchi. Pochi sopravvissuti conservano ancora memoria del lontano passato e la vecchia Gabriela risponde a chi le chiede: “ Si sente cilena? ”, “No, mi sento Kaweshkar”.
Una lunga, antica mappa del Cile, di pelle o corteccia bruno mattone-bruciato, si srotola e le reliquie di quella civiltà parlano del suo rapporto con l’acqua e con i cicli della natura. Un’armonia che altri uomini hanno distrutto, rapaci predatori della loro innocenza.
La storia di Jimmy Button e del suo bottone di madreperla riemerge così dal mare:
Uno di questi indigeni, ribattezzato dagli inglesi Jimmy Button, venne portato in Inghilterra, e bastò appunto solo un bottone di madreperla per convincerlo a lasciare il suo mondo. Era molto sveglio, imparò l’inglese e si adattò ai nuovi costumi, ma dopo un anno il capitano Fitzroy lo riportò in America dove morì perché non si ritrovava più nel suo mondo originario”.
Un parallelepipedo di quarzo che da millenni conserva acqua al suo interno è l’immagine in apertura da cui si dipana una lunga riflessione su questo elemento primigenio da cui è nata la vita.
Presente ovunque nell’Universo in tutte le sue forme, l’acqua “è il tramite fra noi e le stelle ” dice la voce di Guzmán, dunque bisogna ascoltarla per dare un senso al nostro presente, “scintilla di attrito fra il Passato ed il Futuro”.
Un tempo i nativi pagaiavano a Capo Horn con piccoli scafi fragili che sembravano volare sulle onde dell’Oceano. I conquistadores vennero da quel mare e li ingoiarono. Quelle stesse onde hanno inghiottito migliaia di fagotti umani imbragati in sacchi di plastica e juta, appesantiti da pezzi di rotaia, buttati giù da aerei dell’aeronautica militare al servizio della giunta golpista di Pinochet.
Per 17 anni il deserto del nord e il mare del sud sono diventati fosse comuni, cimiteri a cielo aperto su cui esercitare, oggi, la pietà della conoscenza e del ricordo.
Legato all’acqua come alla terra in simbiosi profonda, il Cile, afferma il regista, è il Paese di un popolo “… che non riesce a spezzare le catene della sua storia, che non riesce ad emergere, tranne forse in quei mille giorni in cui Salvator Allende ha dato una specie di breve primavera alla lunga tragedia cilena”.
Dunque, saldare la cerniera del passato col presente è necessario, le storie si dimenticano, ma l’acqua e la terra ricordano, basta interrogare per avere risposta.
E se un giorno “ la scienza s’innamorò del cielo del Cile, e in quel luogo dove sembrava di poter toccare le stelle con un dito fu costruito il più potente telescopio del mondo”, la poesia di un poeta del cinema ha dato voce oggi al silenzio del mare e alla memoria dell’acqua.
Oggi che ho la libertà di raccontare quello che da bambino non ho mai avuto modo di fare”.
Prigioniero nello Stadio Nazionale di Santiago con le migliaia di dissidenti cileni che il regime ha fatto sparire, Patricio Guzmán è riuscito a fuggire nel novembre del 1973. Da allora ha vissuto a Cuba, in Spagna e infine in Francia, Paese dove si producono i migliori e più numerosi documentari al mondo. Esilio volontario da un paese amato, ferito, ancora non del tutto guarito, il Cile è il luogo a cui ha dedicato tutto il suo cinema.
La nostra terra somiglia ad una spiaggia gigante con alle spalle la montagna, una lingua di terra fra il mare e le vette della cordigliera, un paese ed un popolo aggrappati ad un angolo del mondo, senza nulla né davanti né dietro”, ha detto Sebastián Lelio, esponente di punta di quel Nuovissimo Cinema Cileno formato dall’ Escuela de Cine de Chile di Santiago che è l’erede del Nuovo Cinema della stagione di Allende costretto alla diaspora (v. anche “Nuovissimo Cinema cileno, una riflessione a margine” in https://www.indie-eye.it/cinema/news/nuovissimo-cinema-cileno-una-riflessione-a-margine.html e https://www.indie-eye.it/cinema/recensioni/49-pesaro-film-festival-il-cinema-di-sebastian-lelio.html ).
A questi giovani, “ una generazione che ha molta voglia di fare”, si rivolge Guzmán perché “ la politica, come la storia, hanno bisogno di sogni e di utopie per muoversi”.*

Sogni e utopie, ancore, scafandri, salvagenti per non affondare, piccozze e chiodi per arrivare sulla cima, o solo fili d’erba … per non cadere in cielo

Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
A un nulla, qui, per non cadere in cielo!**

* I brani dell’intervista a Patricio Guzmán sono tratti da L’Espresso on line, a cura di Stefano Vastano.
**G. Pascoli, da Vertigine, in Nuovi poemetti.

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