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La notte dei morti viventi di George A. Romero: la recensione

La retorica sul 68 è una delle forme più tronfie e deleterie per l’obnubilamento coatto del pensiero di un’epoca, che è controverso finché si vuole ma fondamentale per la contemporaneità: la rivoluzione sessuale, il femminismo militante, il pacifismo, i conflitti intergenerazionali sublimanti nell’emersione dei fenomeni giovanili di massa e/o nei carsismi alternativi dell’underground (e dell’affermazione del concetto di giovane), la partecipazione attiva nell’azione politica, che furono la linfa culturale del movimento (qualunque cosa questa parola voglia dire), condussero indubitabilmente ad una percezione della realtà, delle dinamiche umane e sociali, differente, altera, nuova. Una visione che, assumendo in forza, ora per assimilazione ora per contrasto, le pulsioni attive di inizio ‘900, si è radicata, si è fatta comune sentire. Magari le urla dei cortei hanno finito per affievolirsi sino a scomparire tra le pareti di quelle stesse camere del potere alle quali erano dirette; magari gli agitatori sovversivi di quella stagione hanno finito per uniformarsi ai modelli borghesi che tanto avevano aborrito (e Woodstock fu un bluff). Ma l’urgenza di quelle istanze fu così prepotente da superare i suoi stessi attori, da divenire modello, da farsi eternamente riattualizzabile e moderna. Di quel momento propulsivo, nel bene e nel male irripetibile, La Notte è un concentrato di elementi, ora coscientemente ragionati, ora mutuati automaticamente dal sentire del tempo ed espressi in forma simbolica.

Romero parte dallo script di Io Sono Leggenda di Matheson (già portato sullo schermo nel ‘64 da Ubaldo Ragona col suo L’Ultimo Uomo Della Terra), filtrandolo attraverso le angolazioni distorte del mitologico Carnival Of Souls di Herk Harvey, per comporre un quadro in cui il grand guignol di Hershel Gordon Lewis, i chiaroscuri di Wells ed i rigori ibseniani di Bergman, confluiscono in un episodio de Ai Confini Della Realtà. Giacché il capolavoro di Romero è, sì, un classico film d’assedio diretto alla programmazione dei drive-in, come del resto era, almeno inizialmente, nelle intenzioni dei suoi autori (Romero, John Russo e Rudy Ricci), ma è anche e soprattutto un rivoluzionario trattato su pellicola; una conferenza di sociologia politica in forma di b-movie. Oltre che una delle più sottili e complesse lezioni di cinema a cui è dato di assistere in una vita.

Realizzato in totale autonomia, con un budget irrisorio, da un gruppo di giovani alle prime armi, fattesi le ossa in una piccola televisione privata di provincia, ed una troupe pronta a scambiarsi ruoli e competenze, La Notte ampliò la sua carica eversiva in corso d’opera, laddove, progressivamente, i suoi artefici compresero quanto il lavoro si stesse caricando di un portato che, assumendo in toto lo spirito del tempo, stesse spostando sempre più l’asse del significato (la storia orrorifica in sé) sul significante (le sovrastrutture metaforiche della narrazione).
Romero, dopo il velocissimo incipit al cimitero, che chiude, ancora, simbolicamente con la tradizione dell’horror gotico, scarnifica il racconto sino a ridurlo alla pura azione: un gruppo sparuto di individui che chiuso in una casa si trova a fronteggiare alla meglio un’orda famelica di morti viventi, di cui non sa nulla. Ed è attraverso la pura azione che erige un racconto che si articola su più livelli, inscenando, in poco più di un’ora e mezza, una battaglia di simboli ed allegorie dopo il quale il cinema di paura non sarebbe mai più stato lo stesso. L’horror inteso come genere critico e della crisi, politico in senso stretto, nasce qui; in una pellicola che ha l’ardire di piazzare come protagonista, per la prima volta in assoluto, in un’America rotta ancora dalle tensioni interraziali, un nero; che teorizza, in forma di metafora, come farà poi Romero ancor più lucidamente in Dawn Of The Dead (Zombi se preferite) la fine di una civiltà occidentale composta ormai da organismi corrotti in piena decomposizione di coscienza, in cui gli ultimi detentori di una qualche consapevolezza, si ritrovano a lottare strenuamente per non venire stritolati anch’essi dalle innumerevoli mandibole del sistema.

La figura dello zombi, si allontana così, definitivamente, dalla tradizione haitiana, sul modello de L’Isola Degli Zombies, abbandonando la sua connotazione di pretto fantastica, per essere calata in un contesto realistico, urbano, tangibile. Perdendo persino la sua denominazione, tanto che la parola (zombi) non viene mai nominata nell’arco dell’intera pellicola e fissando, quindi, il paradigma definitivo del mort-vivant moderno (anche esteticamente: emaciato, dinoccolato, che si nutre di carne umana). E poco importa se, fugacemente, la voce di uno dei tanti notiziari udibili tra radio e tv, attribuisca la causa del risvegliarsi dei morti, alle radiazioni emesse da un misterioso satellite. E’ solo un’espediente narrativo, peraltro appena accennato, residuo di un primo plot a carattere più smaccatamente fantascientifico che non compromette il nichilistico pessimismo che avvolge l’intera opera. Cos’è il cannibalismo delle insaziabili creature, se non una truce allegoria di un sistema alla deriva che conduce all’annientamento tra simili, alla sopravvivenza attraverso la distruzione dell’altro da sé? Perché La Notte è anche un’aspra riflessione sull’incomunicabilità, sull’incomprensione, sull’individualismo; sull’impossibilità di una coesione anche a fronte del pericolo per la propria stessa vita. I personaggi coinvolti non dialogano tra loro, non cooperano realmente; sono frenati nell’agire dalle loro personali esigenze, dalla paura, dalla diffidenza. Romero li condanna, li punisce e priva la storia di un finale catartico, in cui ogni distanza tra bene e male si assottiglia sino a scomparire; affidando la bonifica alla ferocia reazionaria di una banda di balordi vigilantes, tanto più feroci e brutali delle stesse creature. Alludendo al Vietnam, alla storia americana e chiudendo le sequenze finali, à la Chris Marker, sulle sorti del personaggio di Ben che diviene così eroe della comunità nera precorrendo pure l’attentato a Martin Luther King.

Un monumento in bianco e nero che, come ogni monumento, riafferma eternamente la sua statura epocale, carico com’è di segni influenti del proprio tempo, della propria epoca, della propria storia. Capace di dialogare lucidamente con la contemporaneità, perché pregno di valori mai così attuali come oggi; perché forte di un linguaggio puro, coerente, modernissimo. Perché riesce a condurre ad un livello di coscienza superiore, urtando lo sguardo contro budella e braccia mutilate. Stabilendo nuovi standard della narrazione, dell’immagine, dell’immaginario.
Molto più che un film horror. Molto più che 24 fotogrammi al secondo.

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