venerdì, Aprile 19, 2024

La terre des Hommes (Beasts) di Naël Marandin: recensione

La terra degli uomini è terra d'abuso. Che spazio può esserci per la giovane Constance? Naël Marandin, dopo "La Marcheuse" torna a descrivere l'immobilità delle relazioni di potere come sistema che blocca i corpi e li disciplina fino all'annichilimento. Ma dalla città passa alla campagna. "La terre des hommes" è diffuso con il bollino di Cannes 2020

I pochi che hanno visto “La marcheuse”, prima incursione di Naël Marandin nel cinema narrativo, dovrebbero aver individuato un punto fermo nella breve filmografia del regista francese. L’immobilità delle relazioni di potere come sistema che blocca i corpi e li disciplina fino all’annichilimento. Il nuovo “La terre des hommes“, originariamente previsto per la programmazione entro La semaine de la critique Cannense, poi diffuso con il “bollino” di Cannes 2020, tiene ancora al centro questa fisiologia dei rapporti, ma spostandosi dalla città alla campagna e rilevando quanto il luogo della tradizione possa nascondere dietro al velo una crudele lettura della Storia, come forza sociale che spinge ai margini il corpo femminile. L’organizzazione rurale si schianta contro la definizione di un luogo intimo e lo corrompe dall’interno, almeno fino a quando il corpo stesso riesca a sfilarsi da questo tracciato, opponendo un’ostinata resistenza.

All’impenetrabile rete costituita dalla fisiologia urbana de “La Marcheuse”, dove la prostituzione è il risultato della violenza economica sui corpi, Marandin sostituisce lo spazio aperto della campagna, ugualmente regolato da un codice che non lascia ampio margine d’azione al di là di una concezione predatoria e maschile.

Il commercio di bestiame e l’azienda a conduzione famigliare, fanno parte di quell’aria che Constance ha respirato sin da bambina. Il padre vedovo le lascia progressivamente le redini di un contesto fallimentare, schiacciato dall’avidità dell’ente agricolo locale, con l’idea che l’idealismo della figlia possa gestire tutta la fattoria aiutata da Bruno, il futuro marito, seguendo criteri più sostenibili.

Una traccia narrativa essenziale e ridotta all’osso che serve a Marandin per delineare le radici di un ambiente tossico, atavicamente dominato dall’arroganza maschile, il cui centro nevralgico è proprio il mercato del bestiame, inteso come luogo che ne assimila altri possibili legati alla commistione tra commercio e gioco, legalità e rischio, desiderio e sopraffazione.

Il corpo esile di Constance, interpretata da un’intensa Diane Rouxel, sembra attraversare questi spazi con l’entusiasmo e la volontà di poterne gestire le forze che li regolano, ma è proprio l’esclusione dal controllo che fa emergere la fragilità di un’anima divisa e transitoria.
Constance si perde e nella speranza di poter ottenere le attenzioni meritate, viene spinta su quel limite dove non è più possibile distinguere la legittimazione dall’abuso, la lusinga dall’inganno.

Tutta la sequenza dell’avvicinamento tra Constance e il responsabile dell’Ente, interpretato da Jalil Lespert, è condotta secondo le dinamiche disturbanti di una ritualità predatoria senza scampo, la stessa che è possibile sperimentare nell’arena dove si vendono vacche e tori.
Marandin ha un tocco estremamente sottile e conduce le direttrici di una vera e propria dissimulazione di stupro usando l’ambiguità della parola contro i segni del corpo.
Una danza negativa, dove la grammatica relazionale nega la disponibilità all’incontro emotivo, sostituendola con una lentissima, strisciante sopraffazione.
Il consenso di Constance, mai esplicito ed effettivo è allora il confine sul quale Marandin si sofferma, per interrogare il nostro stesso modo di percepire il limite tra complicità e violenza.

Violento è l’ambiente sociale che circonda la giovane donna; inscritto in modo contrastante negli spazi aperti e apparentemente liberi della campagna. Il regista francese accentua questa sovrapposizione stridente facendo coesistere la minaccia con la trasparenza degli ambienti. Nell’appartamento dove Constance vive, costituito da grandissime finestre che guardano a perdita d’occhio verso i campi, la donna, per esempio, subisce un’ennesima minaccia fuori dai vetri infrangibili dell’abitazione. Come le bestie osservate e messe in vendita nello spazio del mercato, può essere confinata dall’esercizio attivo dello sguardo maschile. Forza e fragilità convivono nel corpo nervoso di Diane Rouxel, soprattutto quando non riesce, e noi con lei, a trovare una soluzione per reagire a tutte le sollecitazioni che sembrano aprirle le porte del futuro, mentre inesorabilmente si serrano.

Senza note a margine, l’antropologia di Marandin diventa anche osservazione generazionale, descrizione di un dramma che oppone l’apparente libertà di movimento delle nuove generazioni in un contesto regolato dall’esasperazione brutale delle regole di mercato quando si sovrappongono alla sedimentazione dei peggiori rituali.
La tecnologia che agevola le vendite del bestiame, protegge un modello patriarcale che il film dell’autore francese mostra attraverso ulteriori stratificazioni, non ultima la festa di matrimonio tra Bruno e Constance sull’aia, dove tenerezza e spirito comunitario, colgono comunque Constance in quella fase di transito ancora sospesa tra libertà e asservimento alle regole della tribù.

Le regole del gioco possono allora cambiare solo quando emerge il coraggio di riconoscere la coazione dei corpi come risultato del dominio di un gruppo sociale sulla mobilità dell’altro.
Constance esce dal suo apparente sonnambulismo quando concretizza le attenzioni del responsabile dell’ente, chiamandole con il nome sottratto dalla grammatica predatoria: stupro.
Più di qualsiasi dibattito sull’ondata #metoo, Marandin definisce con spazi e corpo la difficoltà di riconoscersi al centro di un abuso, soprattutto quando l’anelito verso la legittimazione del proprio ruolo nella società, diventa una necessità fondamentale, come l’aria che respiriamo.
Con la ridefinizione di gesti e confini, con il riappropriarsi della propria grammatica e della propria percezione, la terra degli uomini può essere rifondata.

La terre des hommes (Beasts) di Naël Marandin (Francia, 2020 – 96 min)
Interpreti: Diane Rouxel, Finnegan Oldfield, Jalil Lespert, Olivier Gourmet, Bruno Raffaelli, Clémence Boisnard, Sophie Cattani, Yoann Blanc
Sceneggiatura: Naël Marandin Marion Doussot Marion Desseigne-Ravel
Fotografia: Noé Bach
Montaggio: Damien Maestraggi
Musica: Maxence Dussère

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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