La meta italiana sta diventando una costante per Sophie Letourner e dopo Les Coquillettes e Voyages in Italie ci ritorna mantenendo quello stile autoriflessivo e “diretto” tra diario intimo e autofinzione.
L’aventura ricostituisce la coppia del film precedente, con Philippe Katerine nella parte del marito, e i figli al seguito, durante una vacanza in Sardegna, dove il racconto viene disarticolato da una rimessa in scena dei ricordi, registrati dalla donna con lo smartphone durante tutto il corso del viaggio.
Il racconto plurale di Claudine, la figlia maggiore, Sophie e il marito Jean-Phi, condensa nella forma del tempo non lineare quel disorientamento identitario e percettivo che attraversa tutto il cinema della regista e che sottolinea un’intimità non riconciliata, caratterizzata da fratture, inadeguatezze quotidiane e da una propensione per il gioco e lo scherzo.
L’uso della camera a mano e di quel punto di vista che codifica immediatamente gli scarti e i disallineamenti del cinema del reale è ancora una volta il linguaggio privilegiato, tanto da favorire, oltre al senso di precarietà dell’immagine, anche quello del racconto, apparentemente indefinito e sviluppato entro i confini dell’improvvisazione.
Eppure si ha la sensazione che il motto di spirito e le piccole schegge di racconto morale, avvicinino ancora una volta la poetica di Letourner ad una variazione anarchica e volutamente dispersiva dell’ineffabilità Rohmeriana.
Se la quotidianità viene allora mostrata nella sua rutilante, disordinata e sciatta ripetitività, tranne quei frammenti di condensazione temporale dove i frammenti sono giù rivissuti e nuovamente ri-organizzati da un racconto declinato al passato, è la crisi identitaria di Sophie, rispetto alla distrazione del marito e al tempo dell’attenzione cannibalizzato dal piccolo Raoul, a suggerire un ritratto niente affatto leggero sulla sparizione emotiva di una donna.
Questo disagio emerge più di una volta, nel pianto improvviso e nel distacco motorio e fisico con l’uomo, sempre in ritardo, irrimediabilmente altrove, dislocato rispetto ai tempi della famiglia, fin dall’inizio del film, quando il viaggio procede in parallelo, lui in macchina, la donna e i figli sul treno.
Ecco che l’apparente anti-cinema di Letourner è al contrario un’assunzione forte e radicale del punto di vista, nell’impossibilità di costruire un film di famiglia che racconti una storia unitaria, mentre questa casomai prende vita dalla sconnessione tra parola e immagine, ricordo e messa in scena, dove la forma si modella a partire dall’estrema fluidità emozionale.
Il film procede quindi per collisioni, re-visioni del racconto stesso, dilatazioni apparentemente inerti e fratture ex abrupto, come l’urlo di Raul che in mezzo al sovrapporsi caotico delle parole, richiede improvvisamente silenzio.
La piccola antropologia del quotidiano che Letourner insegue da sempre attraverso l’accumulo della parola, oltre alla dimensione conversazionale che consente alla regista di inventare un’oralità giocosa, delinea in L’aventura il percorso di una fuga impossibile, dove non esiste spazio intimo e interiore nell’economia del nucleo famigliare condiviso.
La vacanza, come possibilità di evasione, diventa amplificazione della routine, sacrificio continuo, anche quando sembra l’esatto contrario, coazione a ripetere del mangiare, cagare, inseguire il tempo per perderlo o per rimanere delusi quando ci si immagina di averlo afferrato.
Dov’è allora Sophie in questo viaggio in avanti che in realtà è già a ritroso? Nella memoria sollecitata dai ricordi registrati oppure già oltre, sconnessa dalla realtà coniugale come in quelle immagini conclusive che pesano come un macigno, perché descrivono il vuoto e l’assenza di Jean-Phi, mentre non è possibile o non si vuole motivarla.
L’aventura si delinea a poco a poco come la ricostruzione impossibile di una quotidianità sospesa tra noia e tenerezza, amore per i figli e annichilimento della propria identità nel progetto famigliare.
Quello di Letourneur è un cinema che procede per dispersione e risonanza del frammento, dove il diario evidenzia una finalità spesso in contrasto con il documento, tanto è labile, incerto e fuori fuoco come la memoria.
Voyages en Italie era già un’indagine sulle dissonanze all’interno di una coppia e sulla stanchezza emotiva che prevale rispetto al percorso di viaggio. In entrambi i film il paesaggio è un soggetto inerte, opprimente e bidimensionale, schiacciato da un’anti-estetica che disinnesca la riproduzione del punto di vista turistico, proprio per l’adesione brutale a quella concezione.
La Sardegna de L’aventura invece di sollecitare un’esperienza in divenire, diventa brutta, anche nella percezione della coppia, mai troppo convinta di quello che stanno vivendo, quindi tutta uguale, indifferenziata rispetto ad altre località vacanziere, ridotta alla misura caotica e angusta di una famiglia abituale.
Il Cinema di Sophie Letourneur ancora una volta sospeso tra apparente euforia e disgregazione, racconta con un tocco personale e senza compromessi, la perdita di se stessi nella frammentazione dell’esperienza quotidiana. Lo fa con mezzi formalmente e volutamente distanti dall’estetica visuale corrente, più vicini alle forme di un cinema vérité tascabile, ma descrivendo con grande acume la segmentazione percettiva che ci cancella.