Il cinema di Anna Cazenave Cambet si sta evolvendo a partire da coordinate molto precise, legate alla definizione del desiderio come soglia indefinita, soggetta a progressivi slittamenti verso l’azzeramento stesso.
Sin dai primi cortometraggi, l’attenzione al corpo e alla sessualità femminile non binaria, le ha consentito di tratteggiare ritratti intimisti che superassero i codici del racconto di formazione, attraversati come erano da uno spirito osservazionale incorporato nelle strategie del cinema del reale, ma utilizzate per evidenziare le incertezze emotive, la difficoltà di adattamento, la sensorialità come strumento di conoscenza della propria interiorità ed infine l’isolamento rispetto alle regole di convivenza sociale.
Quest’ultimo aspetto, centrale in De l’or pour les chies, primo lungometraggio della regista francese, torna ad animare il nuovo Love Me Tender, con un’elaborazione ulteriore di quell’indefinitezza che caratterizza il percorso dei personaggi nel suo cinema.
Affida quindi all’espressività fisica di Vicky Krieps l’eredità di quel misticismo laico che Tallulah Cassavetti scopriva nel film precedente.
La separazione di Clémence e Laurent non sembra creare frizioni rilevanti nell’organizzazione delle giornate da dividersi per stare insieme al piccolo Paul, il figlio della coppia.
Fino a quando la donna non rivelerà all’ex di aver ricominciato ad uscire e a ricostruire la propria sessualità, incontrando altre donne.
Da questo momento in poi, incapace di elaborare un rifiuto considerato irreversibile con gli occhi del pregiudizio, Laurent ingaggerà una guerra inesorabile contro Clémence, rendendo difficile gli incontri della donna con il figlio, mettendo di traverso la burocrazia dell’assistenza sociale e alimentando l’ostilità di Paul nei confronti della madre.
Quest’ultimo aspetto, per quanto centrale nella trasformazione del rapporto tra la donna e il bambino, viene mostrato attraverso le conseguenze, mentre le ragioni e i processi di manipolazione rimangono fuori campo, nell’ombra di una gestione inconoscibile, rispetto alla quale Clémence rimane tagliata completamente fuori.
L’esercizio del contatto, della conoscenza attraverso la presenza, l’abbraccio e lo scambio sensoriale di affettività, diventano un piccolo teatro del gesto, contratto nello spazio negativo del controllo burocratico. Al di fuori di quella rappresentazione, le occasioni per sperimentare i propri spazi condivisi, sono ridotte al minimo.
Questo amore negato viene messo a confronto con la vita promiscua di Clémence, la cui urgenza di esprimersi attraverso il corpo passa da una relazione breve all’altra, dove la dimenticanza, la ricerca dell’istante apicale e la relativizzazione di qualsiasi legame, si oppongono a quell’ostinazione tragica che caratterizza la lotta per difendere lo spazio relazionale con il figlio.
L’immediatezza con cui Kristy Baboul nel film precedente della regista francese, riusciva ad immergere Esther nella dimensione claustrale di un progressivo rifiuto del desiderio, cogliendo i gesti e i ritmi di una dimensione sospesa attraverso la luce degli ambienti conventuali, ritorna in Love Me tender con l’adattamento di quell’approccio fotografico naturalista ai ritmi e agli spazi della città.
Eppure, se Esther riduceva il contatto con la realtà condivisa, mentre Clémence si trova nella frenesia del tempo urbano, entrambe intraprendono un percorso di ricodificazione del desiderio e dell’affettività, che raggiunge l’autoaffermazione attraverso la rinuncia, intesa come gesto di radicale liberazione.
L’oblio, categoria apparentemente negativa e strenuamente contrastata dai principi che costituiscono l’assetto della famiglia nucleare, diventa un’opzione quando la difficoltà di esprimere pienamente l’amore filiale, l’unico a cui Clémence sembra assegnare un valore assoluto, marginalizza gli eventi che occupano lo spazio vitale della donna.
La relazione con Sarah, interpretata da una vibrante Monia Chokri, è la prima a definire lo spazio esclusivo della condivisione, eppure sarà minacciata dall’instabilità emotiva di Paul nei confronti della madre.
Attraverso la ricombinazione poetica della realtà, Clémence che scrive per vivere, interpreta tutte le volte questo suo stare sul bordo come una condizione necessaria per fare piena esperienza della libertà.
Rispetto alla coercizione invisibile dell’ex marito che influenza il comportamento di Paul, Clémence sceglie allora di lasciare andare le cose e di spalancare la porta sull’abisso. Non dimentica il figlio, ma lascia che la dimenticanza possegga potenzialmente entrambi.
Love me tender illumina a poco a poco il tragitto che conduce alla dissoluzione di ogni radice, identificando lo spazio irriducibile dell’essere al confine di uno svuotamento radicale dei legami che non siano animati da un atto libero della volontà. Dimenticare, rescindere, rifiutare qualsiasi forma di ricatto affettivo è l’approdo di Clémence, catturata nella luce diurna mentre percorre la città in bicicletta.
Lascia senza fiato questa apparente resa che libera il movimento incessante del film nel girare a vuoto della vita, non solo per il rifiuto di assecondare una soluzione narrativa che lo spettatore attende, ma per il modo in cui la sospensione e il distacco diventano il cuore pulsante dell’immagine, dopo la continua messa in scena dei sentimenti, teatralizzazioni destinate ad infrangersi.
Nel cinema di Anna Cazenave Cambet si fa strada una concezione del racconto fatta di attraversamenti e spezzature, dove l’incedere apparentemente episodico degli eventi, serve a decostruire i processi identitari fino al nocciolo più duro e incomunicabile dei personaggi, quel carpe diem che nessuno ha il coraggio di vivere sino in fondo.
Esther prima e Clémence adesso scelgono la demolizione dell’identità come costrutto percepito dall’esterno e imboccano la strada più difficile, quella che abita il vuoto come estrema realizzazione del possibile.
Love me tender di Anna Cazenave Cambet (Francia, 2025, 130 min)
Sceneggiatura: Anna Cazenave Cambet
Fotografia: Kristy Baboul
Montaggio: Joris Laquittant
Interpreti: Vicky Krieps, Monia Chokri, Viggo Ferreira-Redier, Antoine Reinartz, Féodor Atkine, Park Ji-min, Manuel Vallade, Aurélia Petit, Salif Cissé