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Lucca Film Festival 2020, Concorso cortometraggi: seconda giornata

Lontanissimo dal brutto instant cinema che circola in ogni dove, la seconda giornata di corti del Lucca Film Festival curati da Rachele Pollastrini è una riuscitissima combinazione di elementi e suggestioni che ruotano intorno all'idea di famiglia, osservata da polarità spesso opposte e contrastanti, ma intesa come luogo comune da cui partire per indagare la costruzione o la disgregazione del senso di appartenenza e di identità. 

La casa e la famiglia. C’è un prima e un dopo rispetto al Covid-19? Noi non ne siamo convinti. Ci piace pensare, insieme alla bella selezione di cortometraggi curata da Rachele Pollastrini per il Lucca Film Festival 2020, che tutti quei segni emersi durante i mesi dell’isolamento, fossero già presenti, maturati o marciti nel complesso sistema di relazioni sociali, pubbliche e private. 
Lontanissimo dal brutto instant cinema che circola in ogni dove, la seconda giornata di corti del Lucca Film Festival è una riuscitissima combinazione di elementi e suggestioni che ruotano intorno all’idea di famiglia, osservata da polarità spesso opposte e contrastanti, ma intesa come luogo comune da cui partire per indagare la costruzione o la disgregazione del senso di appartenenza e di identità. 

Nella vicinanza di Bonifacio Angius con i margini del contratto sociale, il regista sardo interpreta Mario, perdente fuori dal gioco del suo stesso nucleo per un’ingenua e vitale ostinazione a non volersi integrare. Nell’incapacità di tradurre i codici relazionali, il lavoro si rivela come derivazione della stessa impostura. Quando la sorella gli dirà che la sfiga non esiste, mentre il suo problema è aver contratto il malocchio, Mario ci crederà fermamente, assumendo i gesti e gli oggetti di una cultura apotropaica radicati nella sua terra. Il santino cattolico con la preghiera sul retro, dovrebbe scongiurare l’incedere di un destino infame. Non è la sopravvivenza corrotta della tradizione, né il segno di una superstizione che divide la società in classi. Persino il sacerdote chiuso nel cinismo del confessionale non crede più a quella dimensione, mentre nell’indifferenza di tutti i membri della comunità, per Mario sarà l’unica possibilità. Rivolgersi ad una fede irrazionale, mimetica, falsa e paradossalmente onesta. I doni dell’impostura, come in Melville, dove la realtà rivela l’accordo di potere tra le parti, mentre nella violenza che non comprende l’indicibile, il volto pestato a sangue di Mario, può improvvisamente percepire la grazia in una sorprendente autosuggestione, capace di salvarlo dallo squallore che lo circonda. La ricerca del talentuoso regista di Sassari continua ad esplorare i luoghi di una provincia difficile, ostile, antituristica, occupata da un profondissimo male di vivere. La forma breve di “Destino” trattiene la forza di questo contrasto in un tagliente esperimento narrativo di rara efficacia, dove l’ironia sconfina con la meraviglia, l’invettiva trascolora nella grazia, il mistero dischiude l’irriducibilità della vita nello spazio crudele della città.

Destino

Il lavoro di Lori Felker, seppur circoscritto, meriterebbe una retrospettiva. La sua ricerca legata all’identità femminile si è concentrata sul trauma della perdita e della maternità, attraverso tre lavori dal respiro autobiografico realizzati quest’anno. “Spontaneus” è il primo di questi e racconta la trasmutazione del corpo interno durante il lungo e doloroso processo di un aborto spontaneo, nell’interazione con quello pubblico costituito dalla routine del suo stesso lavoro. Ospitata allo Slamdance, vive e filma in qualche modo il diario del suo dramma nel rutilante mondo festivaliero, rituale dal quale si distacca progressivamente, cercando di definire uno spazio indicibile. La Felker si serve di una forma quasi tattile di found footage, ri-filmando da schermi e cornici ottiche le sue e le altrui immagini, elaborando fotografie, frammenti televisivi e cinematografici e il suo personale videodiario, con una vicinanza che muove continuamente il quadro per avvicinarsi all’inerzia della superficie. Un metodo che segue il suo stesso flusso di coscienza. Al centro, la memoria che diventa corpo caotico, esperienza discontinua, interazione mancata, immagine abortita. 

Non mi piacciono i film dove le persone fanno quello che gli si dice di fare“. Il flusso di coscienza di Alicia Connelly è senza freno. Diversamente da quello della Felker, coglie il percorso di formazione di una bambina nel suo farsi. La madre Shayna Connelly, da sempre interessata alla relazione tra racconto e documentario, segue i pensieri della figlia attraverso un’interazione ludica e aperta che definisce da subito un metodo. “Bananas Girl” prima di un ritratto è una dissertazione sperimentale sul fare cinema, dove sperimentale è inteso come vicinanza estrema alle possibilità dell’esperienza. 
Il risultato è al contempo straniante ed esilarante, nella capacità di adattarsi al ritmo ondivago del gioco, ma anche all’esplosione del nonsense come sguardo sull’emergere della dimensione sociale, davanti agli occhi di una bimba. Nel gioco di ruoli che madre e figlia rimettono in circolo, si delinea l’apertura della scena come indirizzo costante e progressivo verso l’identità di genere, sguardo sul mondo prima ancora che del mondo. 

La finestra, topos pittorico e cinematografico per eccellenza, diventa un ponte tra l’esterno e l’interno di una famiglia, nell’esplorazione fotografica e autobiografica della portoghese Patrícia Sobreiro intitolata “A Jamela”. “Fotofilme” come vero e proprio saggio per immagini, dove il movimento procede dal valore memoriale della fotografia, contro la dimensione documentale agganciata alla realtà. Questa perde progressivamente definizione temporale, ponendosi al di là di fatti e fenomeni. Sogno, desiderio, perdita, delineano i contorni di un ritratto famigliare che persiste grazie alla definizione di un limite. La finestra da cui lo sguardo di una famiglia si rivolge al mondo, mentre frammenti di realtà passano all’interno, diventa allora palpebra, cornice, passaggio, ritaglio, aberrazione temporale tra l’intimità e l’apertura verso l’esterno. Fin quando la finestra di una casa ormai perduta nel tempo, continuerà ad esistere come elemento materiale, la Sobreiro potrà confrontarsi con la rappresentazione del proprio mondo interiore. 

Nunca te dejé sola

La casa di “Nunca te dejé sola“, il corto diretto dalla giovanissima regista spagnola Mireia Noguera e già selezionato dal prestigioso Festival di Stitges, è attraversata dalle forme di certo surrealismo, memore della lezione di Alberto Cavalcanti, trasposta nella dimensione contemporanea dell’horror di scuola spagnola. Classe 1992, la Noguera, dopo un’esperienza di tutto rispetto nel contesto cinematografico del suo paese, si fa produrre da Mammut Producciones, una delle realtà indipendenti più importanti per quanto riguarda il nuovo cinema catalano. Nella rimessa in scena di una traumatica esperienza personale, “Nunca te dejé sola” fa coincidere lo spazio del ricordo famigliare con quello dell’abuso. La casa, luogo apparentemente accogliente e destinato a proteggere l’identità di un nucleo, si trasforma in un luogo abitato dai fantasmi della coscienza. Il soprannaturale diventa strumento per materializzare i frammenti di una memoria rimossa e temporaneamente accecata. Lo spazio si contrae oppure si estende intorno alla protagonista. La casa, corpo negato, si apre all’informe e a tutti i principi disgregativi che da sempre la minacciano. Oltre la forma del labirinto escheriano, la Noguera fa emergere una commuovente ricerca del tempo come anelito verso un gesto d’amore. La casa siamo noi.

Viene dalla Spagna anche “Mare” diretto da Guille Vázquez, regista coetaneo della Noguera e formatosi come direttore della fotografia. Il corto presentato a Lucca è il suo esordio come regista e ha più di un punto di contatto con l’origine pittorica e onirica di  “Nunca te dejé sola”, pur approdando a risultati estetici molto diversi, legati in prima istanza alla disgregazione della fabula nel gioco di rispecchiamenti tra diversi piani di realtà. Al centro la narcolessia della madre di Vàzquez a cui il figlio dedica questa elegia sonnambolica. L’incubo di Fuseli, immagine pittorica che ha ispirato moltissimo cinema, da Kubrick a Ken Russell, è la genesi figurativa da cui procede il regista spagnolo. L’ecosistema marino viene ricostruito in una casa minacciata dall’interno. Nella ricostruzione di questo ventre alchemico, il sonno infinito che non attraversa l’altra dimensione, genera uno spazio alieno dove gli opposti contribuiscono alla creazione di un equilibrio tra identità e disgregazione, al di fuori di qualsiasi definizione binaria. 

I heard silence from her



Potrebbe essere imprigionato nella narcolessia anche il corto della sudcoreana Geena Jung intitolato “I heard silence from her“. In un sobborgo che ricorda il labirinto di case e baracche addossate in “Pietà” di Kim Ki Duk, memoria e dolore confondono i piani temporali di un racconto che ancora una volta mette al centro la casa come luogo dove vita e morte innescano un processo circolare di costruzione e disgregazione. La Jung sviluppa un inquietante noir dell’anima, che scinde progressivamente la dimensione mnestica da quella immaginifica, sfaldando un piano di realtà nell’altro. Mentre i rumori molesti del vicinato definiscono la solitudine di una giovane donna, la presenza della madre malata e la scomparsa del piccolo e fedele cagnolino, sembrano appartenere alla dimensione di un passato immerso nel sangue e nel dolore, che ha improvvisamente interrotto il corso di una vita intera. “I heard silence form her” è un lavoro di difficile lettura, alla ricerca di una via inconsueta per rappresentare i confini dell’immagine psichica. Tutto sembra promanare a un certo punto dal pattern test RGB di uno schermo catodico oppure dal rumore bianco di uno schermo in assenza di segnale. Trattamento di cui la Jung si serve anche per le immagini notturne del suo film, dove le trasparenze e i canali alpha sembrano brutalmente post-prodotti per creare uno stato di sconfinamento tra luce e ombra, grazie all’esaltazione dei difetti dell’immagine. Qualsiasi spazio venga definito, la casa si trasforma progressivamente nell’incubatore più rischioso della propria vita, quello che non ci consente più di operare alcuna distinzione organica tra l’interno e l’esterno, sorprendendoci improvvisamente isolati e incomunicanti.  

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