venerdì, Aprile 19, 2024

Macbeth di Justin Kurzel: la recensione

Oltre ai protagonisti Michael Fassbender e Marion Cotillard nella parte della celebre coppia, Paddy Considine è Banquo, generale dell’esercito di re Duncan, amico di Macbeth e padre di Fleance (Lochlan Harris); Sean Harris è MacDuff, nobile scozzese, il primo a sospettare di Macbeth e per questo (oltre a “non esser nato di donna” come voleva la profezia) guida della riscossa contro il tiranno. David Thewlis nella parte del buon Re Duncan e Jack Reynor in quella di suo figlio Malcolm chiudono la lista, senza dimenticare le famose Norne, streghe delle saghe celtiche che emergono da sfondi nebbiosi con un neonato in braccio, particolare non presente nel testo originario e che dovrebbe avvalorare la lettura in chiave psicanalitica già introdotta dalla scena iniziale, anch’essa variante al testo, con il funerale del piccolo figlio della famiglia Macbeth seguito da rogo inceneritore. Non mancano neppure zombies in una scena chiave, soldati morti in battaglia che predicono il futuro a Macbeth, sempre più paranoico dopo l’irresistibile ascesa al trono di Scozia cui seguirà rovinosa e altrettanto rapida caduta.

Nel 2011 Kurzel aveva portato a Cannes, alla Semaine de la Critique, un notevole film d’esordio, Snowtown, ispirato alla storia vera di un serial killer australiano. La rappresentazione della violenza risultò tanto insopportabile quanto essenziale, affidata ad un magnifico gioco narrativo ellittico ed ansiogeno per cui la definizione più adatta fu “agghiacciante”.

L’approdo al Macbeth shakespeariano nel 2015, mentre già il regista si prepara all’uscita fra un anno esatto di Assassin’s Creed con la stessa coppia di stars e l’ambientazione anche questa volta medievale, spinge a qualche riflessione. Il tema della violenza e delle sue profonde motivazioni, affrontato con piglio sicuro nella sua prima prova, non convince in questa rivisitazione di un epos che ha trovato forme e linguaggi di grande spessore nella storia del cinema. All’ennesimo adattamento cinematografico della breve e corrusca tragedia shakespeariana (se ne contano circa venti a partire dal 1905), che mette al centro Macbeth, Thane di Glamis e di Cawdor, nobile guerriero medievale devastato dall’ambizione e dalla colpa, il rischio maggiore era disattendere le attese.

E il Macbeth dell’australiano Justin Kurzel, purtroppo, disattende.

Il rischio dell’oleografia nella scelta del Medio Evo come sfondo storico è incombente. Le highlands scozzesi, almeno dal 2009, data di apparizione del Valhalla Rising. Regno di sangue di Refn, sono diventate terreno di performances molto ardite, ma Braveheart non abita più lì e Shakespeare non è autore da fornire impunemente a chiunque testi per trasposizioni cinematografiche, a meno che uno non si chiami Welles, Kurosawa o Polanski (o Scorsese e Branagh, in dirittura di arrivo con il loro Macbeth).

Kurzel confeziona un film che avrebbe tutto per far presa: il carisma indiscusso della fonte autoriale, nomi di grande spicco e indubbia bravura nel cast, un supporto eccellente di tecnici e maestranze e, soprattutto, una fotografia che del magnifico scenario naturale fa una vera avventura dello sguardo. Fra nebbie e boschi cupi, distese di terre a perdita d’occhio fino al mare e all’isola di Skye da un lato e i Grampians, solenne e innevata quinta di fondo, dall’altro, la Scozia resta forse il posto più denso di suggestioni del vecchio continente.

Così suggestivo da suggerire al regista di far immergere Fassbender nelle sue acque, uscendone poi, grondante e magnifico, depurato dal sangue del buon Duncan, sgozzato nottetempo nel suo letto. Kurzel non osa la nudità che tanto giovò a Shame di McQueen, Fassbender è opportunamente velato da braghettoni medievali, e anche l’unica scena di sesso, dopo anni di assenza da casa di Macbeth per guerre e incontri paranormali, è molto più suggerita che vista, solo il necessario perché la malefica Lady Macbeth confidi al marito il piano omicida e ottenga l’assenso del coniuge, perplesso e titubante ma incapace di sottrarsi all’influenza perversa della donna.

Se il colpo ci dovesse fallire?– tenta timidamente lui.
Noi fallire! Sol che voi vogliate stringer la corda del vostro coraggio al suo punto di fermezza noi non falliremo!

Lady Macbeth ben conosce l’animo sostanzialmente buono, ambizioso ma anche debole del marito:
Ma non mi fido della tua natura: troppo latte d’umana tenerezza ci scorre, perché tu sappia seguire la via più breve. Brama d’esser grande tu l’hai e l’ambizione non ti manca; ma ti manca purtroppo la perfidia che a quella si dovrebbe accompagnare”.
E, infine, quel “Lasciate a me tutto il resto” fa della perfida Lady la campionessa dell’intrigo internazionale, una virago ferina come se ne son viste poche a teatro e al cinema.
Ebbene, una dark lady così sanguinaria, cinica, assetata di potere e manipolatrice finissima della psiche del marito, non può credibilmente trovare nel viso angelico dai grandi occhioni tristi di Marion Cotillard una degna incarnazione, per quanti sforzi la bravura dell’attrice riesca a compiere. Le Norne con le loro balorde profezie hanno innescato in Macbeth il seme del male, ma il terreno fertile è quello della donna, che ben conosce le corde giuste da toccare: “Hai dunque paura di essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che tu sei nel desiderio? Pretenderesti di avere ciò che tu stimi essere il decoro della vita e vivere da vigliacco nella tua stima stessa, lasciando che “io non oso” stia al servizio di “io vorrei” come fa il povero gatto del proverbio?
La Cotillard fa del suo meglio, è molto diligente anche nella dizione di una lingua non materna, ma non sarà mai una credibile Lady Macbeth. Fassbender, dal canto suo, ha la giusta miscela d’innocenza mista a imprudente e bramosa selvatichezza che immaginiamo appartenesse al vero Macbeth, ma la sua performance non riesce a sottrarsi alla stagnante monotonia che pesa come una coltre spessa sul film, un’assenza di ritmo che preclude le necessarie variazioni di intensità e misura buone a rendere l’apocalittica tensione del testo shakespeariano. Un sound di sonorità vibranti, ossessive, ridondante a volte ma piacevole nell’insieme, è spalmato da Jed Kurzel lungo tutto il corso della storia e fa vibrare le Highlands fino ai più remoti recessi, mentre un apparato visivamente sontuoso assicura un teatro cinematografico di forte appeal alla tremenda storia raccontata: campi di battaglia e accampamenti ricostruiti con filologica precisione, interni di castelli scozzesi ricchi di ombre inquiete e cupi presagi, l’immensa navata di una cattedrale gotica dove l’immaginazione sfrenata dell’ambizioso Signore prefigura la sua consacrazione a re, previa eliminazione del buon re Duncan.

Eppure questo Macbeth non convince, e perfino il magnifico fraseggio shakespeariano, canonicamente rispettato nella recitazione in lingua originale, si appiattisce in una catatonica freddezza che molto toglie alla furia distruttrice delle Erinni che si scatenano dalle menti deviate di moglie e marito, portandoli alla pazzia e alla morte. Quel processo di mimesi senza catarsi, che segna il distacco definitivo della tragedia moderna dalla sua matrice antica, non trova spazio in questa recitazione convenzionale, spesso inspiegabilmente sussurrata o altrettanto spesso affidata ad anonima voice over nella parte di voce interiore dei personaggi o voce narrante tout court, sostitutiva di didascalie.

Dove collocare dunque il Macbeth di Kurzel nell’elenco ormai secolare di trasposizioni cinematografiche?

Ha credenziali per reggere confronti sublimi come Il trono di sangue di Kurosawa, che muove i suoi personaggi nel Giappone del XVI secolo, teatro della vicenda: “Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del mio paese” aveva infatti dichiarato il grande Maestro.

Ha forse la mefistofelica crudeltà di Polanski, che abbondò in scene macabre dai toni cupi, e mentre il sangue scorreva a fiotti non potemmo non avvertire la mano forte del grande autore? 

Può infine reggere il confronto con Welles che, con soli sessantamila dollari, in regime di povertà assoluta e ostilità dichiarata da parte dell’establishment hollywoodiano, seppe imporre anche al cinema il suo amore per Shakespeare e creare uno dei suoi capolavori, sintesi assoluta di essenzialità e forma barocca, teatro che rompe gli argini e fugge in avanti ad inventare nuovi linguaggi?

Crediamo di no, un ottimo budget non è necessariamente garanzia di un buon film e probabilmente il Macbeth di Kurzel non lascerà gran segno del suo passaggio.
Si potrebbe pertanto dire di lui, restando in area elisabettiana, “molto rumore per nulla”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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