mercoledì, Dicembre 11, 2024

Martin di George A. Romero: recensione

Second Sight Films pubblica un'indispensabile edizione restaurata in 4K di Martin, il film di George A. Romero girato nella città in declino di Braddock, che deterritorializza e riscrive la mitologia del vampiro. Un'analisi critica a cura di Michele Faggi e la recensione dei contenuti speciali dell'edizione 4K

La lametta dentata che domina il manifesto originale di Martin è incisa nella parte superiore con la scritta “Made in Usa”. Questa rivela esplicitamente il radicamento del film di George A. Romero in un contesto culturale diverso dalla tradizione gotica europea, attivando un percorso di demitizzazione del vampiro, se lo intendiamo come figura dell’immaginario codificata di volta in volta sulla base del potenziale distruttivo scagliato contro l’integrità identitaria occidentale.
Non è solo il limite tra la vita e la morte, materia e antimateria, la realtà e il suo riflesso negativo, ma le origini di un male ancestrale che tradizionalmente mina fondamenta e certezze del mondo moderno, per assorbirne la linfa vitale e sovvertire l’ordine sociale condiviso.
Il personaggio interpretato da John Amplas è un ragazzo che ha viaggiato solamente da Indianapolis fino a Pittsburgh per raggiungere il borgo di Braddock dove vive il cugino Cuda. Se questo ha origini lituane ed è legato ad un cattolicesimo intriso di superstizione, il giovane abita lo spossessamento di ogni illusione che affligge un comune adolescente nell’America post-industriale degli anni settanta.
Il suo ritorno a casa e la relazione con la comunità che lo circonda, non sono dissimili dall’esperienza di Andy Brooks, reduce dal vietnam in Deathdream di Bob Clark e più in generale dalla descrizione della famiglia americana come nucleo destinato alla corrosione interna.

Martin incarna un’eredità tutta statunitense, come testimone del declino inesorabile della provincia, non luogo dove la dimensione del sogno si è dissolta per lasciar spazio alle macerie di una tecnologia adesso inservibile.

A 20 minuti da Pittsburgh, distesa lungo il fiume Monongahela, Braddock è simbolicamente rappresentata dai residui di un’industria ormai obsoleta, la grande acciaieria costruita alla fine dell’ottocento. La crisi del settore siderurgico, già in stato avanzato a cavallo tra gli anni sessanta e i settanta, spinge all’esodo forzato gran parte dei residenti.
Martin si muove attraverso il trasporto ferroviario, quello che scandisce i tempi di una rete industriale già fantasma di se stessa, accumulando tutti i segni più dolorosi della ribellione e incorporando il contrasto tra la dimensione ipertrofica della cultura visuale urbana con l’orizzonte negativo di un piccolo centro desertificato.
Gli strumenti del suo vampirismo sono la siringa ipodermica e una lametta, figurativizzazioni di una dimensione sensoriale legata ad altre dipendenze, che spogliano l’ossessione per la morte dall’aura mitologica, per definire la supremazia dello sguardo mediante un cortocircuito che rovescia la palpebra.

Tutto ciò che Martin ha visto, desiderato e temuto, è una replica incontrollata della società dello spettacolo, da cui desume stimoli e obiettivi, tanto da riscrivere continuamente il film di Romero a partire dall’impossibilità di riconoscersi nel solco di un mito fondativo.

Mentre ripete al cugino ossessionato dalla presenza del male nell’esistenza quotidiana, che non c’è alcun spazio per la magia nel disagio vissuto, cerca di ricostruire l’esemplarità del racconto attraverso l’uso testimoniale del mezzo radiofonico, l’unico che può trasformare la superfetazione dei simulacri assorbiti, nella rimessa in scena di un’esperienza percepita come unica, attraverso la focalizzazione del narratore interno. Ma è proprio questa a negarsi come chiave di comprensione del mondo, perché già vampirizzata dalla proliferazione di immagini, a cui Martin assegna una valenza oggettiva, disattesa ogni volta da un nichilismo senza uscita.

Tutto ciò che sembra confinato nello spazio della digressione temporale, condivide il luogo della memoria con la stratificazione mitologica generata dall’assorbimento dell’immaginario cinematografico. Il passato del ragazzo è allora una creazione incongrua che rilegge i propri traumi e quelli di un’intera generazione nel passaggio dallo specchio agli schermi. Il voyeurismo, più di un propellente per scatenare il meccanismo seriale dei delitti nella relazione irrisolta tra distanza e prossimità con il desiderio, si rivela prassi abituale che Martin esercita quotidianamente. Solo così può collocarsi fuori dagli eventi che lo circondano e sostituire l’esperienza con la sorveglianza.

Bram Stoker elabora il mito gotico attraverso le manifestazioni di un’ombra che minaccia la stabilità della Londra fin de siècle con un vampirismo invisibile tra la folla della città moderna, ma fortemente radicato nelle paure più profonde della società vittoriana. Ed è in questo modo che i confini tra scienza e irrazionalità, ragione e follia vengono ridefiniti mediante la paura del contagio. Romero rilegge queste suggestioni con il depotenziamento della tensione che le alimenta e l’incorporazione del limine alieno rappresentato dall’idea stessa di vampiro, all’interno di una modernità che è già post. La psiche di Martin è il prodotto di una cultura che ha vampirizzato tutte le immagini. Nasce e si forma nell’integrazione tra città e sogno, con il secondo destinato ad infrangersi alla vigilia del fallimento delle istanze industriali sulle quali era stato fondato.

La relazione di Martin con la tecnologia è destinata quindi a rivelare il sabotaggio intrinseco delle sue stesse funzioni. Telefoni e apri-garage definiscono altro rispetto al loro utilizzo empirico, perché innescano incomprensioni, isolamento, morte, e soprattutto la fine del recinto privato come luogo sicuro da qualsiasi minaccia esterna. La ferrovia stessa, spazio destinato allo scambio e allo sviluppo della collettività, assolutamente centrale nella storia della trasformazione identitaria e civile degli Stati Uniti, diventa teatro di decadenza e morte, immagine di un’inesorabile insularità rispetto all’esplosione delle megalopoli. Il girare a vuoto dello stesso Martin è conseguenza e origine della stessa desolazione; dolente come tutte le figure mostruose romeriane è anche preludio a quel caos dove dalla superficie di uno specchio, i morti guardano i vivi attraverso gli stessi occhi.

Se il controllo dell’immigrazione attivato nell’Inghilterra del primo novecento con The Aliens Act, concretizza in un certo senso la descrizione acuminata e predittiva di una Londra terrorizzata dal contatto con lo straniero, per come possiamo leggerla in alcune pagine del romanzo di Stoker, Romero immerge Martin in una realtà di già morti, per attivare una reversione della stessa immagine.

Tutto il valore Fabbricato in Usa dell’ingegno industriale che ha reso Braddock una città destinata a scomparire è significato da Romero nell’insistita ripetizione wharoliana dei rottami automobilistici, destrutturati, compressi e compattati nella prassi tecnica di una discarica.

Nell’intervista rilasciata a Dan Yakir nel 1979, per il numero di Maggio/Giugno di Film Comment, il regista americano parla di un’ambientazione che è attraversata dalla disintegrazione. L’orgoglio industriale è finito, non c’è più lavoro, la chiesa è collassata su se stessa, tutte le comunità operaie che rappresentavano il cuore delle cittadine intorno a Pittsburgh, dissolte nel niente.

Braddock è allora chiaramente più di uno sfondo, ma un personaggio fondamentale dove i movimenti e le azioni di Martin portano alla luce i contrasti della comunità di riferimento, spostando anche sul piano generazionale l’ipotesi di una provincia senza futuro.

Alla cittadina sono legati buona parte di coloro che lavorano al film, dal direttore della fotografia Michael Gornick, fedele collaboratore di Romero fino allo stesso Amplas. Ma è Tony Buba, fratello del grande montatore Pasquale e che nel film si occupa del suono, a rappresentare un tramite fondamentale con Braddock. Il documentarista locale che per più di quarant’anni ha costruito una stratificata mitopoiesi della cittadina, raccontando progressivamente l’estinzione di una realtà comunitaria fatta di operai, gente comune, casalinghe, venditori di mobili e auto usate, mette a disposizione di Romero la casa di famiglia per costruire l’ambientazione e il contesto drammaturgico principale di Martin, inclusi resti materiali e foto personali, così da radicarne il risultato nello spirito stesso della città.

La signora Santini, la donna che cerca di combattere solitudine e insoddisfazione seducendo Martin, Christina, la figlia di Cuda che affronta ogni giorno l’oltranzismo bigotto del padre, il fidanzato Arthur interpretato da Tom Savini, alla ricerca costante di un lavoro decente, sembrano provenire dall’immaginario elegiaco di Buba, precorrendone gli esiti futuri.
Non è un caso che in una sequenza di Martin compaia anche J. Roy, l’imprenditore che passa da un’attività di vendita all’altra attraverso ripetuti fallimenti, protagonista trasversale della filmografia di Buba e al centro di J. Roy: New and Used Furniture, girato a Braddock nel 1974.

Se nel breve documentario Buba cerca nei volti dei commercianti e dei lavoratori la spinta positiva per rilanciare l’economia di una città dilaniata dalla crisi, assegnando a J. Roy il carisma del motivatore e il racconto della storia commerciale dell’intera comunità, Romero sfrutta la figura dell’imprenditore per collocarla nella chiesa fatiscente amministrata da padre Howard, il parroco interpretato dallo stesso regista americano. Deacon Roy viene introdotto dal prete poco dopo il vangelo di San Giovanni, per arringare i fedeli sulla necessità di sostenere la ricostruzione della casa di Dio. Sullo sfondo di un altare improvvisato, una parete precaria contribuisce ad amplificare quel sentimento della fine che già caratterizzava lo sguardo di Buba, mentre con ripetuti camera car scansionava le strade di una città viva a metà. Al centro del cinema di Buba c’è già l’estetica del fallimento, l’autoritratto e il ritratto urbano, il confine sottile tra individualismo estremo e il suo disinnesco parodico, in anticipo sul cinema di Michael Moore.

Ma nel suo caso, l’autoanalisi, come impossibilità di assumere un punto di vista scientifico e globale, gli consente di rimanere agganciato alle proprie radici, ma è anche una possibilità per sabotare il ruolo testimoniale del documentarista stesso, disattivandone il potere rispetto alla comunità con cui dialoga. J. Ray, nel film citato è un self-made man che vuole convincerci con le forme del pensiero positivo: “Siamo nati per avere successo e se non ce l’hai, è colpa tua perché non hai mantenuto il controllo sui tuoi pensieri. Ciò che pensi determina quello che farai, e quello che farai determinerà gli obiettivi che potrai ottenere”.

Eppure le immagini del breve documentario che introduce per la prima volta la sua figura, contrastano con il richiamo continuo al fare impresa, raccontando una sequenza di fallimenti inesorabili all’interno di un contesto urbano che dal 1960 fino agli anni novanta, perderà quasi novemila abitanti.

Nel film di Romero, l’incarnazione di quello stesso self-made-man nel ruolo di Deacon Roy, chiede alla comunità di contribuire con oggetti usati, riesumati dalle cantine, scovati nelle proprie case, facendo eco al business che nel film di Buba del ’74, sembra una delle alternative papabili per rimettere in circolo l’economia della città: l’eterno ritorno del modernariato come immagine di un passato nostalgico, relitto tra i relitti della contemporaneità.

Adesione e distacco dall’immagine documentale si sovrappongono anche in Martin, questo perché Romero e Gornick usano lo stesso sfondo visuale sperimentato da Buba come immagine del fallimento, ma ne forzano il risultato estetico utilizzando pellicola invertibile, i cui processi di sviluppo rispetto a quelli sfruttati per i negativi, equiparano l’immagine in bianco e nero con quella a colori, rendendo quest’ultima più sporca e desaturata. Al contrario, tutte le sequenze in bianco e nero che in qualche modo alludono alle scelte della prima versione mai vista di tre ore e mezza, recentemente ritrovata nel formato 16mm in circostanze leggendarie ancora tutte da chiarire, vengono contrastate al massimo per differenziarne sensibilmente la percezione. Migrano reciprocamente i rapporti e le polarità semiotiche tra bianco e nero / colore, come forme di rappresentazione tra sogno e realtà, proprio per la qualità effimera del materiale stesso, qui messo in abisso da due istanze del punto di vista: la rimessa in scena della realtà e la storia dell’immagine cinematografica spinta nello spazio incerto e falsificante della memoria.

Gli specchi che diventano schermi, come dicevamo, non ci consentono di collocare la storia identitaria di Martin nell’area di una narrazione definita, se non attraverso una mitopoiesi connotata dallo stesso giovane nella relazione con i nuovi mezzi di comunicazione, qui rappresentati dai frammenti radiofonici che lo focalizzano come narratore interno, a sua volta impegnato nel declassare il mito del “Conte” e nell’attivare uno spossessamento consecutivo dei segni legati alla maschera gotica. Il passato del vampiro è già inscritto nella ri-mediazione di un espressionismo bianconero che emerge dall’immaginario cinematografico, si confonde con le sollecitazioni scopofile dei Peep Show ed infine con una possibile biografia personale, come quella dei personaggi dei film diretti da Buba, sempre in bilico tra racconto biografico, testimonianza diretta e auto-finzione.

Il trauma del suicidio è un motivo visuale che dal cinema della memoria personale, aumentata o meno, si ripete ritualisticamente ogni volta che Martin uccide le sue vittime, appropriandosi del loro corpo con la forza del gesto. I polsi squarciati, l’eliminazione del dolore, l’accompagnamento verso il sonno eterno. L’unica forma di abuso che Martin esercita è quella di nutrirsi del sangue dei morti, come sostituzione effettiva della pulsione sessuale che lo spinge ad uccidere. Allo stesso tempo, la forma di tutti i desideri irrealizzabili è esterna alla sua volontà, perché modellata dalla morfologia di una coscienza già indirizzata dall’immaginario al potere.

L’estetica del fallimento include anche le sue azioni, l’esperienza del vuoto tra i bassifondi della città, la convivenza con una comunità di morti viventi, l’impossibilità di vedersi inquadrato da qualsiasi ipotesi di futuro, se non nella coazione a ripetere di un trauma indicibile che colloca la figura femminile nella dimensione mitica un tempo occupata dall’identità sadiana del Conte.

La figura tra i generi di John Amplas, oltre a sollecitare numerose affinità con le possibilità e le nuove paure del contagio ipodermico, abita una posizione di transito capace di far brillare una mina nel cuore di quell’immagine codificata dal sistema patriarcale, in modo diverso rispetto a Season of the Witch, ma altrettanto evidente.

Martin è intrappolato tra le pieghe di un immaginario che non gli appartiene e che modifica la sua esperienza del mondo, ma anche le radici di una possibile biografia personale. Come tutti i dropout romeriani, diventa un mostro perché quello è il percorso stabilito dalla narrazione postindustriale, dove il tempo è irrimediabilmente perso e la vita continuamente dismessa.

Alla città di Braddock, che vive nell’illusione di una rinascita felice, mostra il volto osceno dell’eccedenza, che si manifesta in termini economici, visuali e identitari. Non può che rappresentare il male di vivere senza desideri, mimandone l’iconografia comune che ha sostituito le sale cinematografiche con i live Peep Show, ultima trasformazione dei Mutoscope del diciannovesimo secolo, cercando l’unico spazio di tenerezza in una pantomima suicidale ripetuta all’infinito.

Terminato con un palo di frassino piantato in mezzo al cuore dal padre di tutte le sue ossessioni, rimane corpo dilaniato nella luce diurna, al di là di una definizione di genere e desiderio.

Martin, che anticipa la riscrittura del vampiro e della sua mitologia per come la vedremo in film come Near Dark e The Addiction, cancella il peso della tradizione e spalanca un occhio vitreo sulla non morte delle ipervisioni a venire.

Martin di George A. Romero, la Versione resturata in 4k da Second Sight

La britannica Second Sight ha recentemente pubblicato una versione restaurata di Martin in 4k, partendo dal duplicato di un negativo in 35mm, rielaborato in digitale con la supervisione del direttore della fotografia Michael Gornick. Si tratta del primo tentativo di recupero dell’immagine e dei colori originali della pellicola di Romero, la cui qualità come sappiamo è determinata anche dalla desaturazione colorimetrica, dalla grana dell’immagine e dai contrasti estremi tra colore e bianconero.
Martin viene distribuito in versione 4k standard, in versione Blu Ray Standard e in un’edizione limitata che aggiunge un disco Blu Ray, un booklet di 108 pagine con approfondimenti e saggi e il CD della colonna sonora composta da Donald Rubinstein, che aveva visto la luce per la prima volta nel 1979 su etichetta Varese Sarabande e che era stata ristampata tre volte, l’ultima delle quali nel 2015 in vinile limitato e ormai fuori catalogo dalla Ship to Store Phonograph Co.

Il risultato in termini di immagine è eccellente su entrambi i supporti e recupera perfettamente l’allure di un film del 1976 senza forzature e contrasti eccessivi.

Molto ricca la dotazione di contenuti speciali che aggrega vecchi contribuiti e alcuni nuovi di grande valore, contenuti nella stessa misura in tutte e tre le edizioni.
Il comparto dei commenti audio ne include due d’archivio, entrambi con George A Romero. Il primo registrato insieme all’attore John Amplas e il mago degli effetti visivi Tom Savini, il secondo con il produttore Richard P Rubinstein, il compositore e fratello Donald Rubinstein, ancora una volta Savini e il direttore della fotografia Michael Gormick.

Un terzo commento è invece registrato dal compianto Travis Crawford, curatore di numerose edizioni Blu Ray e festival, scomparso lo scorso luglio a soli 52 anni. L’ultimo commento audio è invece affidato a Kat Ellinger, direttore editoriale di Diabolique Magazine.

Tre i documentari contenuti. Making Martin: A Recounting, è una featurette sintetica e d’archivio che percorre Braddock nel 2007 e aggrega le testimonianze di Romero, Savini, i due Rubinstein e può essere considerato un antipasto del nuovo contributo prodotto da Second Sight insieme a Severin Fillm, della durata di quasi sessanta minuti: Taste the blood of Martin. Il tour per Braddock diventa estensivo e centrale e consente di approfondire il making del film, attraverso numerosi aneddoti e le testimonianze attuali di Amplas, Gornick, Rubinstein, Christine Romero e Tony Buba, documentarista e fratello di Pasquale, montatore storico dei film di George A Romero.

Di Tony Buba l’edizione Second Sight include un corto fondamentale, J Roy – New and Used Furniture, realizzato nel 1974 per le strade di Braddock e di cui abbiamo parlato in modo estensivo nella recensione del film. Girato in 16mm bianco e nero è solo uno dei film realizzati dal documentarista in quarant’anni, ma è quello che ovviamente, per questioni cronologiche, è maggiormente legato alla realizzazione di Martin.

Nuovo anche il contributo dedicato a Donald Rubinstein: Scoring the Shadows è una breve intervista al compositore americano e si sofferma sulle qualità astratte e acusmatiche della partitura, scritta per il film pensando al Jazz, al folk e alla musica contemporanea e combinando strumenti tradizionali con il sintetizzatore analogico e polifonico Arp Strings e un variatore di fase per il piano elettrico. Gli elementi della tradizione folk rurale, a cui Rubinstein pone grande attenzione durante la scrittura, riemergono con strumenti tradizionali che subiscono un trattamento ulteriore. L’effetto è quello dello spaesamento che vive lo stesso Martin, dove i residui di un vecchio mondo inconoscibile collidono con un paesaggio sonoro che in qualche modo suggerisce lo stesso spleen di quello industriale ormai derealizzato.

Il Cd musicale, incluso solo nell’edizione speciale in slipcase rigido, consente di ascoltare con la dovuta attenzione una colonna sonora sottile e a tratti subliminale, dal grande valore compositivo ed espressivo.

Insieme a questo, l’edizione limitata include un libro di 108 pagine con saggi di Daniel Bird, Miranda Corcoran, Travis Crawdord, Heather Drain, Kat Ellinger, Anrew Graves, Alexandra Heller-Nicholas, Elena Lazic, Stephen Thrower, Jon Towlson, Simon Ward e Tony William, il tutto corredato da rare fotografie scattate dietro le quinte del film.

A corredo dell’edizione limitata, 5 cartoline da collezione illustrate da Adam Stothard.

Tutte e tre le edizioni, le due standard rispettivamente in Blu Ray e 4k e la collector’s edition che li contiene entrambi, sono region free, con un comparto audio ottimo che propone la versione mono originale, quella stereo e una nuova esperienza sonora di qualità, 5.1 surround.

Il film contenuto è ovviamente quello della versione per i cinema americani di 95 minuti. Sono disponibili anche i sottotitoli in lingua inglese per i non udenti.

Martin di George A. Romero (USA 1976, 95 min)
Sceneggiatura: George A. Romero
Interpreti: John Amplas, Lincoln Maazel, Christine Forrest, Elyane Nadeau, Sara Venable, Tom Savini, Fran Middleton, Roger Caine
Fotografia: Michael Gornick
Montaggio: George A. Romero
Musica: Donald Rubinstein

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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