L’eco sorda dei bombardamenti, nubi nere che si innalzano minacciose all’orizzonte. Il volto delle persone spaesate e inghiottite da una realtà improvvisamente derealizzata.
“Militantropos è una maschera o un personaggio che gli esseri umani assumono quando entrano in uno stato di guerra”.
Il neologismo che da il titolo al film di Yelizaveta Smith, Alina Gorlova e Simon Mozgovyi, viene spiegato con una didascalia per definire immediatamente la mutazione sperimentata dalla collettività durante l’invasione russa dell’Ucraina. “Il caos della guerra – prosegue – non solo lacera il mondo fisico, ma frattura anche l’identità del Militantropos stesso”.
Tre dei nomi di punta della Tabor, casa di produzione ucraina indipendente, gestita con i principi di un vero e proprio collettivo, uniscono i loro sguardi per descrivere l’esperienza quotidiana del conflitto e il modo in cui l’ecosistema della guerra assorbe, e allo stesso tempo rivela, limiti, confini e potenzialità della condizione umana.
Sulla scia della loro personale ricerca cinematografica con i codici del reale, ma anche in linea con alcune produzioni ucraine recenti che hanno analizzato aspetti diversi e circoscritti della stessa guerra utilizzando mezzi simili, realizzano un esempio doloroso e brillante di cinema di poesia, decostruendo la narrazione bellica con una costante problematizzazione del punto di vista.
Seguono allora frammenti di vita civile e militare, limitando al minimo l’uso della parola e affidandosi alla relazione, spesso traumatica, tra suono, immagine e ambiente.
Diversi piani del reale che sollecitano un’interpretazione concettuale delle immagini, inscritte però all’interno di una cornice antropologica più importante, quella di una mutazione comportamentale e attitudinale della società civile, a contatto con la pervasività della guerra.
I tre autori suddividono il film in segmenti tematici, senza marcarli in modo specifico se non esplicitamente figurale, cercando una compenetrazione tra strati diversi della società civile. Viene allora descritto in medias res lo spaesamento di fronte ad un evento che sconvolge la vita dei singoli.
L’evacuazione di alcune aree e la separazione tra chi rimane e chi parte, apre e chiude ellitticamente il film, mostrando due momenti di sradicamento. Al contrario, la didattica dell’autodifesa e l’introduzione del lessico militare nelle azioni comuni, unisce vecchi e giovani durante l’apprendimento minimo nell’uso dei fucili. L’allargamento degli spazi preposti ad accogliere le salme dei caduti nelle aree suburbane, rievoca lo scenario di “Time to the target”, il recente documentario diretto da Vitaly Mansky e dedicato proprio alla compenetrazione tra la vita quotidiana e la guerra, ormai parte di una routine cerimoniale e collettiva che si sviluppa intorno ai luoghi del cimitero di Leopoli.
La guerra viene allora accettata come unica opzione per continuare ad esistere, esperienza implacabile per i tre autori, nel processo di trasformazione della società come insieme.
Si alternano allora le immagini dalle trincee, spazi senza soluzione di continuità tra la vita sociale e la persistenza della natura nonostante i grandi incendi all’orizzonte, con quelle che descrivono la sopravvivenza delle aree rurali in mezzo alla distruzione. Alla prassi di mantenimento e utilizzo delle armi, viene accostato il dissodamento della terra, alle munizioni che riempiono un caricatore, il tentativo di rimettere insieme piccole coltivazioni a conduzione famigliare.

La morfologia urbana delle piazze, delle principali arterie stradali, dei centri commerciali, cambia di segno rispetto ad una quotidianità altrimenti anonima, per investire di senso ogni occasione. L’eccezionalità emergenziale della guerra rivela allora nuove possibilità di coesione sociale e identitaria, intorno alle quali si stringe un’intera collettività.
Tra le immagini più potenti e terribili, quelle che si riferiscono al gioco dei bambini. Se infatti la città è generalmente luogo del molteplice, dove l’ostacolo architettonico forza l’adattamento dello sguardo, in una costante avventura dei corpi entro uno spazio contraddittorio, alla ricerca di oasi inclusive, il radicale cambiamento percettivo introdotto dalla guerra, spacca in due l’assetto funzionale urbano e disgrega elementi di comunicazione quotidiana.
L’orizzonte dove orrore e meraviglia possono convivere, è quello abitato dalla capacità di adattamento dei bambini. Sono molte le sequenze dove questi giocano in aree urbane distrutte, dove piccoli ponti e strade sventrate rivelano nelle ferite, possibilità di improvvise esplorazioni, capaci di resistere alla minaccia della morte.
La collaborazione con il compositore viennese e sound designer Peter Kutin diventa aspetto espressivo fondamentale. Il suono trascende la prassi del field recording, per elaborare un corpo sonoro cinematico che espande la nozione stessa di sguardo.
In qualche modo c’è una connessione con lo stesso ruolo che la musica occupava nel lungometraggio di Alina Gorlova uscito nel 2018. In “No obvious sign” il lavoro di Ptakh Jung occupava quel crocevia tra elementi della composizione e la dimensione empirica assegnata ad Oksana, il personaggio principale, per il modo in cui la PTSD cambiava radicalmente la sua percezione della realtà, anche dalla prospettiva aurale.
Ciò che in Militantropos non vediamo della guerra, collocata sempre fuori campo grazie al filtro della visione notturna, della prospettiva alle spalle dei lanciamissili, della vita civile che si riorganizza dove la distruzione è già passata, viene dislocato nella presenza costante del rumore. Una linea ossessiva che scolpisce le stesse immagini attraverso lo scollamento tra suono e sorgente.
Cinema espanso in una dimensione acusmatica quello suggerito dal film, dove le immagini, anche quando circoscrivono la ricerca dell’armonia, vengono attraversate da un corpo aurale che ne minaccia lo statuto.
Ecco perché nella compresenza tra orrore e riscoperta del gesto che il film dei tre autori ucraini sembra sovrapporre, emerge una forza che eccede la trasfigurazione della comunità operata dalla narrazione bellica. Questa è nell’immagine di un popolo radicalmente attaccato alla vita e alla propria identità culturale.
L’immagine inscalfibile della resistenza.
Militantropos di Yelizaveta Smith, Alina Gorlova e Simon Mozgovyi (Ucraina, Francia, Austria – 2025 – 111 min)
Sceneggiatura: Alina Gorlova, Simon Mozgovyi, Maksym Nakonechnyi, Yelizaveta Smith
Fotografia: Khrystyna Lizogub, Denys Melnyk, Vyacheslav Tsvetkov
Montaggio: Alina Gorlova, Simon Mozgovyi, Yelizaveta Smit
Suono: Peter Kutin