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Moloch di Nico van den Brink: recensione @ Oltre lo specchio film fest 2022

Il primo lungometraggio di Nico van den Brink è uno degli esempi più recenti tra quei film che cercano linfa vitale dalla tradizione folklorica del proprio paese, ma combina anche altri elementi che hanno a che fare con la Storia archeologica dei Paesi Bassi. Si ricrea quindi quel connubio tra scienza e altre credenze che è il propellente principale per tutte le storie che si muovono tra visibile e invisibile.

La riscrittura del folk horror, come suggestione che aveva attraversato in forma diseguale il cinema di genere degli anni settanta, soprattutto britannico, nell’ultimo lustro ha individuato nuovi stimoli per le potenzialità di adattamento di una formula al percorso identitario di un popolo e al radicamento socioculturale che è possibile rilevare attraverso un retroterra specifico, caratterizzato dalla tradizione orale di riferimento, dalle leggende popolari, dal tramandarsi delle storie a veglia.

A ben vedere, una caratteristica intrinseca al cinema horror, più o meno addomesticata e che arriva sino alla dimensione digitale dei Creepypasta, ma che in alcuni casi specifici ha conservato riferimenti più espliciti alla cultura storico-popolare in senso stretto.

Il primo lungometraggio di Nico van den Brink è uno degli esempi più recenti tra quei film che cercano linfa vitale dalla tradizione folklorica del proprio paese, ma combina anche altri elementi che hanno a che fare con la Storia archeologica dei Paesi Bassi.
Si ricrea quindi quel connubio tra scienza e altre credenze che è il propellente principale per tutte le storie che si muovono tra visibile e invisibile.

In particolare, Moloch parte dal ritrovamento delle mummie di palude, sul modello della Ragazza di Yde e cala la forma di un dramma famigliare tormentato e di nordica distanza nello spazio circondato dalla torbiera di Stijfveen, luogo adatto per nascondere le origini ancestrali e oscure della comunità locale.

Partendo proprio dalle suggestioni scientifiche, il giovane regista olandese allarga le prospettive di un dramma famigliare costruito intorno ad una traccia matrilineare, per definire la relazione simbiotica con un luogo di appartenenza, al di là di ogni possibile raziocinio.

Gli scavi che portano alla luce antichi corpi femminili perfettamente conservati, tutti con un ampio taglio per lunghezza che attraversa il collo, diventano l’innesco per indirizzare l’escatologia della maledizione come forza disgregatrice che sconvolge la storia di un nucleo famigliare, la cui origine è il collante stesso che tiene in piedi l’intera comunità.

Betriek vive con gli anziani genitori insieme alla figlia Hanna e domina insieme a questi il paesaggio palustre che circonda la loro proprietà. Il sito scientifico che scava nei dintorni è una palese violazione della sacralità ambientale che fonde la vita della comunità con le nebbie del luogo.

Non c’è molto altro nel film di van den Brink oltre a questo dissidio, riprodotto anche nella relazione nascente tra la giovane donna e Jonas, il direttore degli scavi archeologici.

Van den Brink immerge le atmosfere di un cinema da camera, fortemente ancorato alla tradizione drammaturgica nordica, in una profonda oscurità ai limiti dell’ipovisione, dove la civiltà rispetto alla palude rappresenta un’eccezione.

Le possibilità di esprimersi assegnate ai corpi sono limitate al dominio ostile dell’habitat e persino il primo amplesso della coppia, viene consumato tra la vegetazione e la nebbia.

Tutto l’orrore che sta per esplodere, con i riferimenti di rito ad un culto rurale di matrice pagana, ha la stessa sostanza della vegetazione imbibita, i colori dell’elemento salmastro, l’emersione dell’informale in un luogo immerso nell’evanescenza brumosa.

Così come ciò che invade lo spazio casalingo, sin dall’incipit dove Betriek è testimone di una mattanza invisibile, ha la stessa morfologia dell’ambiente, la qualità cromatica del paesaggio rurale olandese, l’inconciliabilità indifferente di una natura indomita.

Una scelta che rallenta il ritmo per puntare soprattutto sulla dimensione interiore, dove la rimozione culturale delle relazioni ambientali appare riflessione centrale in Moloch.

Più della presenza simbolica di una divinità da onorare con ripetuti sacrifici per mantenere coeso l’assetto della comunità e la sua relazione con un paesaggio assetato di corpi, colpisce la labilità di questi, nella fotografia notturna di Emo Weemhoff che inghiotte tutto e confonde i contorni del visibile.

L’ambiente allora è ciò che avvolge, circonda e assimila con flussi, agenti ed eventi che riteniamo fuori norma solo a causa di un dialogo interrotto.

Moloch di Nico van den Brink (Paesi Bassi, 2022 – 99 min)
Interpreti: Sallie Harmsen, Anneke Blok, Markoesa Hamer, Ad van Kempen, Edon Rizvanolli, Willemijn Kressenhof, Fred Goessens, Phi Nguyen, Albert Secuur, Johan Fretz
Sceneggiatura: Daan Bakker, Nico van den Brink
Fotografia: Emo Weemhoff
Montaggio: Xander Nijsten

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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
moloch-di-nico-van-den-brink-recensione-oltre-lo-specchio-film-fest-2022Il primo lungometraggio di Nico van den Brink è uno degli esempi più recenti tra quei film che cercano linfa vitale dalla tradizione folklorica del proprio paese, ma combina anche altri elementi che hanno a che fare con la Storia archeologica dei Paesi Bassi. Si ricrea quindi quel connubio tra scienza e altre credenze che è il propellente principale per tutte le storie che si muovono tra visibile e invisibile.
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