mercoledì, Luglio 9, 2025

Motorpsycho di Russ Meyer: recensione

Motorpsycho, il penultimo film in bianco e nero diretto da Russ Meyer, viene pubblicato per la prima volta in 4k UHD + Blu Ray da Severin Films. Ottenuto dal restauro dei negativi originali è una splendida versione che non può mancare in ogni collezione che si rispetti. Leggi l'approfondimento sul film curato da Michele Faggi

Il gotico sudista ispirato all’universo letterario di Caldwell, Steinbeck e al melodramma cinematografico di George Stevens aveva consentito a Russ Meyer di avvicinarsi alle radici di un immaginario fondativo, per separarsi dai “nudies” che occupavano la prima parte della sua carriera.

Al netto dell’esperienza fallimentare con Fanny Hill, produzione europea del 1964 da cui chiederà la rimozione del suo nome e le cui memorie di raffinata donna di piacere saranno citate con ironico disprezzo proprio in un dialogo di Motorpsycho, Lorna e Mudhoney rappresentarono un notevole salto qualitativo nella carriera del regista americano, non solo per l’estremizzazione di quelle radici culturali di cui parlavo, ma soprattutto per la codificazione di un linguaggio che traduceva la velocità dell’universo pulp nella costruzione interna all’inquadratura attraverso l’organizzazione dello spazio, ed esterna per il ricorso alla frammentazione estrema del punto di vista, suggerita da un montaggio frenetico, che nel tempo subirà ulteriori atomizzazioni e accelerazioni.

Il budget più consistente per la realizzazione di Mudhoney e il fallimento finanziario che ne caratterizzò il percorso nelle sale, spinse Meyer in una direzione ancora diversa, meno legata per certi versi ai contrasti dell’espressionismo prestato al cinema nero e maggiormente orientata ad esplorare le pulsioni della violenza in uno spazio improvvisamente spalancato sull’infinito dell’orizzonte western.

Prima di Faster, Pussycat! Kill! Kill!, l’ultimo dei suoi titoli “neri”, tutte le intuizioni che faranno di quel film un concentrato linguistico influente e determinante per certo cinema di genere, erano già presenti in Motorpsycho.

Un anno prima di The Wild Angels, la riflessione ossianica di Roger Corman su un’intera generazione che introduceva la seconda metà del decennio, Meyer capitalizzava l’angoscia giovanile che aveva concluso il precedente, quella del Black Rebels Motorcycle Club di Johnny Strabler, ripresa successivamente da alcuni b-movies fine cinquanta, tra cui Motorcycle Gang di Edward L. Cahn, distribuito dalla American International Pictures, Dragstrip Riot di David Bradley, fino alle sperimentazioni sinestetiche e la rilettura semiotica di Kenneth Anger con Scorpio Rising nei primi anni sessanta. Spostava quindi l’asse percettivo dalle filiazioni dell’icona Brando, verso la rappresentazione di una violenza anti-eroica, distruttiva e disillusa che sarà centrale in tutto il cinema statunitense della seconda metà degli anni settanta.

Intenzionato a solleticare il pubblico dei drive-in con un concentrato dinamico di corpi impegnati nello scontro violento, sfruttava la cronaca nera del tempo e affidava la sceneggiatura prima a William E. Sprague, che aveva collaborato con lui già per Mudhoney, poi alla coppia di attori Hal Hopper e James Griffith, per cimentarsi infine da solo, insoddisfatto dei risultati precedenti.

Haji, al secolo Barbara Catton, l’attrice che da questo momento in poi sarà una delle sue icone fino a Supervixens, è la prima nella filmografia di Meyer a introdurre la figura di una donna dalle origini apolidi, che si impone come soggetto alieno e determinante rispetto alle dinamiche binarie, per sottrarre la scena ad un parterre maschile destinato all’impotenza, attraverso l’espressione di una sessualità ribelle.

Canadese del Quebec, metà inglese e metà filippina, ballerina sin dall’età di quattordici anni, viene vista da Meyer durante uno dei suoi strip show nella San Fernando Valley e provinata per la parte che invece sarà assegnata ad Arshalouis Aivazian, l’attrice che introdurrà i primi minuti di Motorpsycho immersa nel fiume, mentre in bikini si offre come alternativa al bottino di pesca del marito.

Colpito dall’energia fisica di Haji e dal suo accento cajun, Meyer la sorprende, letteralmente, offrendole il ruolo della protagonista.

Il set venne allestito nella zona più brulla del deserto intorno a Blythe, in condizioni precarie e durissime. L’unica roulotte era quella occupata da Meyer e dalla teutonica Rena Horten, attrice frequente fino a quel momento nel cinema del regista e qui impiegata come truccatrice.
Gli attori, accampati all’aperto, condividevano una latrina improvvisata, sistemata in mezzo al deserto e una doccia costituita da una botte ricolma d’acqua, fissata su due assi.
Il tentativo maldestro e abusante di un attore nei confronti di Haji, convinse Meyer a sistemare l’intero cast femminile nella roulotte, così da separare uomini e donne.

Secondo le testimonianze raccolte dai biografi di Meyer, il piano di lavorazione veniva concepito come un vero e proprio campo di battaglia, con l’operatore costretto a mettere a repentaglio la sua incolumità e quella della Arriflex, attraverso una serie di incidenti di percorso e qualche ospedalizzazione.

In questo contesto avventuroso ebbe inizio la collaborazione insieme a Richard Brummer, che lavorerà alternativamente come montatore e tecnico del suono in presa diretta lungo la filmografia del regista americano. Assunto per occuparsi del comparto audio, proveniva dall’esperienza formativa dell’Independent Filmmakers Association e aveva lavorato come montatore alla realizzazione di Jazz Dance, il corto di Roger Tilton realizzato nel 1954, esempio pionieristico di cinema diretto legato alla dimensione performativa, vicino e quasi coevo alle istanze del primissimo Free Cinema Inglese, quello di Mama Don’t Allow di Reisz/Richardson.

Il meticoloso lavoro di Brummer, attento al dettaglio minimo, tanto da reagire traumaticamente con il carattere più istintivo di Meyer, contribuì a costruire un corrispettivo aurale all’estetica iperrealista delle immagini: il ruggito dei motori con le ronzanti radioline a transistor appese ai manubri, le colluttazioni catturate con una prossimità fisica dirompente, i rumori che sostituiscono il valore connotativo delle parole, la spettralità visuale e sonora della Death Valley.

I nuovi selvaggi senza alcun riferimento morale, disallineati dalla classe media statunitense, già caratterizzati dall’estrema gergalità del linguaggio e rivomitati in patria direttamente dalla guerra del Vietnam, anticipavano non solo la generazione delle controculture di li a venire, ma anche i veterani e i reduci di The Losers, il film diretto da Jack Starrett nel 1970, giusto per definire una connessione diretta tra le gang di motociclisti e la militarizzazione della società, riletta dall’immaginario cinematografico.

Se alla fine della seconda guerra mondiale, il risentimento faceva da collante per quella collettività maschile che sperimentava le difficoltà di riadattamento dopo l’esperienza bellica, il recinto di sicurezza per i veterani era rappresentato dalla creazione di controculture caratterizzate dall’aggregazione di soli uomini. Le gang e i club di motociclisti che precedono il secondo conflitto mondiale, diventeranno una costante. Nella lunga fase del boom economico statunitense fino alla stagnazione degli anni settanta, l’impulso all’acquisto di grandi motociclette di fabbricazione americana era il segno di uno status maschile basato sulla fratellanza. Gli Outlaws e gli Hell’s Angels, per citare i club più antichi e i successivi MC fondati a partire dalla fine degli anni cinquanta, come i Mongols, i Pagans, i Bandidos, anche quando in contrasto diretto per diverse radici etnico-culturali, sperimentavano origini comuni nelle modalità di fondazione, ai margini del reinserimento sociale e totalmente fuori dalla cornice legale.

The Born Losers, il film diretto da Tom Laughlin, accreditato come T.C. Frank, uscito nel 1967 si ispirerà all’arresto di alcuni membri degli Hell’s Angels avvenuto nel 1964, per il supposto stupro di sette donne a Monterey. Anche se le accuse furono rigettate, la cronaca locale alimentò quella percezione minacciosa che identificava nei fenomeni controculturali le schegge impazzite di una società irrimediabilmente fratturata.

Russ Meyer assorbì il clima senza situarsi nella mitologia successiva riletta da Hunter S. Thompson alla luce della grande festa del 7 agosto 1965 e allestita in una delle comuni di Ken Kesey a La Honda, dove gli Hell’s Angels vennero invitati per incontrare i Merry Pranksters, in un tentativo di assorbimento impossibile e allucinatorio tra le istanze anarco-libertarie che traevano origine dalla San Francisco Renaissance e l’anti-autoritarismo di destra dell’MC fondato a Fontana nel 1948.

Veterano della guerra in Vietnam, Brahmin è il leader di un terzetto di bikers che semina violenza nel paesaggio desolato di Motorpsycho. Un’astrazione radicale che staglia immediatamente le figure contro il paesaggio nella prospettiva desunta dalle dinamiche del cinema western, per estremizzarne i presupposti.

Il duello diventa frontale, quando la gang incontra il veterinario Corey Maddox e la moglie Gail. Il tentativo di stupro viene frenato dall’uomo, ma la rivalsa è dietro l’angolo. Quando Corey si dovrà assentare per visitare il cavallo di una procace ranchera, Brahmin, Dante e Slick entreranno nel suo appartamento e violenteranno Gail. La nota battuta pronunciata da Russ Meyer stesso, nella parte dello sceriffo che si reca sul luogo della violenza, innesca e allo stesso tempo descrive un contrasto che precede l’evento, sin dalle prime immagini del film: “She’ll be okay in a week or so; after all, nothin’ happened to her that a woman ain’t built for.

Misoginia estrema e brutale che allo stesso tempo, caratterizza tutti i personaggi maschili, incapaci di portare a termine un amplesso, distratti da altro, impotenti rispetto all’insaziabile voglia di vivere e consumarsi dei corpi femminili ed infine stupratori seriali definiti attraverso il fallimento di quell’eroismo virile, richiesto e caratterizzato dalla cultura della coscrizione.

Più di una conseguenza ideologica, lontanissima dalla fedeltà di Meyer ad un metodo rigorosamente fisico di fare cinema, dal set al montaggio, la rappresentazione della violenza viene cristallizzata nelle dinamiche funzionali di una drammaturgia essenziale, e per questo aderente al sistema sociale sotteso.

Il vero antagonista di Brahmin non è Maddox, ma il personaggio interpretato da Haji.
Ruby, sposata ad un vecchio impotente destinato di li a poco a morire come un cane in mezzo agli sterpi del deserto, viene da una vita di espedienti, si è sposata per sopravvivere e le sue cartucce, come ricorderà a Corey, non sono quelle borghesi di Fanny Hill, ma appartengono al compromesso proletario di vivere in una società ostile e predatoria.

Brahmin è un eroe dismesso, assalito dai fantasmi della psiche che Meyer non visualizza mai, per non allontanarsi dal crudo realismo che caratterizza un incubo di violenza e sadismo esposto in pieno sole.
Il deserto, orizzonte negativo per eccellenza, dove la parola viene polverizzata per diventare rantolo, grido, gemito, è lo scenario dove la civiltà viene rappresentata solo attraverso le sue pulsioni primarie.
Corpi che si dibattono, fottono, predano, lottano per sopravvivere, sputano veleno.

La sequenza del pompino simulato, topos che Meyer riprenderà in Supervixens con una sequenza identica dove SuperCherry succhia il veleno dalla gamba di Cal appena morsa da un serpente, è un ribaltamento ludico della potenza virile, invalidata dall’inettitudine di Maddox e assorbita dall’espettorazione violenta di Ruby, veicolo di un immaginario che per Meyer sembra assegnare alle sue Vixens il potere visuale e vitale dell’eiaculazione.

Con il montaggio alternato che affianca lo sputo di Ruby a quello di Brahmin mentre espelle acqua dalla bocca, Meyer assimila la forza dei due personaggi nell’espressione estrema della loro identità, introducendo una scansione lessicale di connotazioni e attrazioni che diventerà tipica del suo cinema.

Mentre Maddox è un eroe per caso, che subisce le casualità di un personaggio Looney Tunes, trovandosi a compiere azioni che non è assolutamente in grado di svolgere da solo, inclusa l’accensione della miccia che farà brillare una provvidenziale carica di dinamite, Ruby e Brahmin sono gli unici outsider che cercano di strappare vita al deserto, rigettando tutte le norme collettive.

Come serpenti e scorpioni, si muovono pronti a colpire in un carosello di maschere che non possono superare le proprie disfunzioni rappresentative.

Il cinema di Meyer, spesso associato ai meccanismi situazionali di un cartoon, macchina celibe costruita per il gusto del funzionamento, si definisce anche per la messa in abisso dei codici della classicità, di cui rimane uno scheletro desertificato dove sopravvive solo l’urgenza tragica dei corpi rispetto alla narrazione utopista del potere e delle ideologie.
Questa semplificazione delle figure nel paesaggio, procede insieme alla serialità del dispositivo narrativo, nella ripetibilità di set, situazioni, elementi figurativi, motivi visuali, fino all’estrema astrazione cromatica e visuale dei suoi ultimi film.

Motorpsycho, il doppio disco Blu Ray + 4k di Severin

Severin Film continua a pubblicare la collana “Bosomania” dedicata al cinema di Russ Meyer. Dopo la Vixen Trilogy esce anche un’imperdibile edizione di “Motorpsycho”, ottenuta dai negativi originali e per la prima volta disponibile in Blu Ray + 4k UHD.
Il restauro effettuato in 4k è stato realizzato dal MoMA scansionando i negativi originali da 35 mm con integrazione degli interpositivi. L’audio invece proviene direttamente dalla medesima traccia sui negativi originali. Si tratta del primo film pubblicato da Severin, tra quelli in bianco e nero della filmografia di Meyer ed il risultato è davvero eccellente in termini di contrasti, dettaglio dell’immagine, senza effetti di granulosità spinta.
Il prodotto, consente l’attivazione di sottotitoli opzionabili in lingua inglese e include un ottimo comparto di contenuti extra.
Tra questi, oltre al trailer ufficiale del film, un commento audio molto interessante curato dalla storica e teorica del cinema Elizabeth Purchell e dal filmmaker Zach Clark, che si cimentano in un dialogo tecnico, storico e teorico su alcuni momenti salienti del film.
Per approfondire la genesi e alcuni aneddoti durante la lavorazione del film, è incluso il documentario “Desert Rats on Honda”, ventuno minuti di interviste dove si alternano Haji e Alex Rocco, rispettivamente Ruby e Corey Maddox nel film di Russ Meyer. Dai rapporti con il regista, all’allestimento del set, fino allo storico provino dell’attrice di origini Canadesi, i due attori passano in rassegna tutti i segreti di lavorazione del film.
I dischi del box sono due, oltre al 4K la Severin fornisce anche il disco Blu Ray per chi ancora non si fosse attrezzato con un buon lettore 4K.

Motorpsycho di Russ Meyer, il doppio disco prodotto da Severin si acquista da questa parte sul sito ufficiale della Label

Motorpsycho di Russ Meyer, l’unboxing video del 4k + Blu Ray doppio disco di Severin Film

Motorpsycho di Russ Meyer (USA 1965 – 74 min)
Sceneggiatura: Russ Meyer
Montaggio: Charles Schelling, Russ Meyer (non accreditato)
Fotografia: Russ Meyer
Interpreti: Haji, Holle K. Winters, Sharon Lee, Arshalouis Aivazian, Alex Rocco, Stephen Oliver, Joseph Cellini, Thomas Scott, Coleman Francis, Steve Masters, F. Rufus Owens, E.E. Meyer, George Costello, Richard Brummer, Russ Meyer

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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